Zio Franco aveva 82 anni quando è morto. Dal notaio, per la lettura del testamento, c’era la fila. Chissà cosa si aspettavano, tutti.
Io niente: già mi stupiva che mi avesse indicato fra gli eredi. Aveva una moglie e una figlia, oltre a fratelli, cugini, ciascuno con la propria famiglia al seguito. E zio Franco non era affatto ricco. Forse questo io lo sapevo meglio degli altri, perché negli ultimi tempi avevo curato i suoi affari. Chi non conosceva le cose dal di dentro, in effetti poteva pensare chissà che. Zio Franco aveva un albergo, era proprietario dei muri e lo gestiva personalmente. Aveva pure un ristorante, nel quale aveva infilato una persona di sua fiducia. E alcune proprietà, tre o quattro immobili, forse di più. Ci ho messo parecchio tempo per capire che era tutto un baraccone: una giostra che ruotava e si reggeva per miracolo. Stava in piedi perché c’era lui a tenerlo in piedi. Gli altri questo non lo sapevano e, disposti in attesa lungo il corridoio, sognavano le parole che avrebbe pronunciato il notaio.
Per quel che mi riguardava, qualunque cosa mi avesse lasciato sarebbe andata bene. Zio Franco non mi aveva mai pagato. Dindini? Mi chiedeva ogni tanto. Così li chiamava lui. Dindini, te ne servono un po’? Talvolta, quando ero messo un po’ male, gli dicevo di sì, ma dindini non ne arrivavano comunque. Allora poi facciamo, diceva, e finiva lì. L’unica volta che mi aveva pagato, lo aveva fatto con un assegno. Il mio primo assegno scoperto.
Quando il notaio ha letto che mi spettava un terreno alle Cinque Terre, nella stanza s’è alzato un mormorio generale. Guarda che lì ha venduto tutto, mi ha detto la zia, alle spalle. Sì, tutto, ha confermato suo genero. Il notaio ha proseguito nella lettura: a chi la macchina, una Citroën DS del ’70, a chi la Vespa 150 color cammello, a chi la barca che stava riversa da anni nel terreno di qualcuno. Alla moglie l’albergo, alla figlia il ristorante. A ogni lascito seguivano i commenti. Fino al capolavoro: a ogni altro parente lasciava una piccola quota di un immobile, che fosse una cantina o un qualunque altro fondo sperduto chissà dove. Erano tutti felici per il fatto che il notaio li avesse nominati. Io sobbalzavo dalla sedia a ogni nome che veniva chiamato e pensavo a quanto ci dovesse aver pensato, lo zio, per riuscire a creare quell’enorme trappola. Da morto come in vita. Le cantine venivano utilizzate da una famiglia poco raccomandabile che ci abitava sopra e lo zio non aveva mai avuto il coraggio di cacciarli fuori. L’appartamento all’ultimo piano con vista sul castello di Fosdinovo, che aveva suscitato commenti d’invidia quando era stato assegnato alla cugina Irma, non era neanche un appartamento. Zio Franco lo chiamava l’attico, ma erano quattro mura abusive sul lastrico solare di un palazzo anni ’60, erette in forza di un presunto e contestato diritto di sopraelevazione. E così per tutto il resto. Quote di nulla. Quote di problemi. Per una vita li aveva creati, gestiti e in qualche modo era riuscito a camparci sopra. Io ascoltavo e ridevo e mi dimenavo. Mica sapevano che l’auto aveva un fermo amministrativo. O che la Vespa era stata promessa in regalo a un tunisino che per qualche tempo aveva aiutato lo zio con l’albergo.
Sul mio terreno, invece, la zia si sbagliava. Nei giorni seguenti ho fatto delle verifiche e, a discapito di qualunque aspettativa, il terreno c’era ancora. Libero, pulito da vincoli, alle Cinque Terre. Il rimborso per l’assegno scoperto, ho pensato.
E cosa te ne fai? Mi ha chiesto mia moglie quando l’ha saputo. Poteva lasciarti dei soldi, piuttosto. Certo ci avrebbero fatto più comodo i soldi. Ne passavamo di ogni sorta in quegli anni, specie da quando era nato il piccolo. Di lavoro non ne girava e campavo con il pensiero di non riuscire a far fronte a tutte le nostre spese. Mia moglie aveva perso il lavoro e mi dava una mano in studio. Mi faceva da segretaria e gestiva la contabilità. Così la nostra cassa era unica e pure la nostra fonte di reddito. O entravano da lì, o da nessun’altra parte. C’erano giorni che ci mettevamo a fare il punto e cercavamo di tagliare, ma in un modo o nell’altro spendevamo più di quello che entrava. Eravamo una macchina che funzionava in passivo.
Puoi darlo via, mi ha detto mia moglie. Prima voglio vederlo, le ho detto io.
E così un fine settimana mi sono ritagliato una mattinata per andare in cerca del terreno, con la mappa catastale e nient’altro. Non so come pensassi di arrivarci e infatti non ci sono arrivato.
Qualche giorno più tardi mi sono deciso a chiamare la vedova dello zio. Era disperata e appena ha sentito la mia voce ha riversato su di me tutta la sua rabbia. Lo sapevo io come stavano davvero le cose? Lo sapevo io che lo zio aveva un sacco di casini? Lo sapevo io come aveva fatto a ridursi in quello stato? Che non pagava i contributi ai dipendenti da tutta la vita? Che in realtà una parte dell’albergo era intestata a un suo amico rumeno? E che la cucina del ristorante era intestata alla moglie di questo suo amico rumeno?
Io sapevo già tutte quelle cose. La zia aveva sollevato appena un angolo del tappeto sotto al quale lo zio Franco, per tutta una vita, aveva nascosto le macerie dei suoi casini. Ogni parente, ogni erede, ne stava sollevando un lembo.
Zia – le ho detto quando non aveva più fiato per gridare all’apparecchio – lo sai tu dove sta questo terreno?
Non c’è più niente, lassù. Mi ha detto: ha venduto tutto al vicino, quello di Pisa.
Così mi sono fatto dire il nome del vicino e nei giorni successivi ho fatto altre indagini. Ero abbastanza pratico di catasto e di tempo ne avevo fin troppo.
Il sabato seguente ci ho riprovato. Memore delle indicazioni che mi ero fatto dare qua e là, ho preso per Riomaggiore e, appena uscito da una galleria, ho parcheggiato in una piazzola sulla sinistra. Sono sceso e mi sono guardato intorno. Mi trovavo ai piedi di una collina e avevo l’idea che il terreno fosse là sopra. Da lì partiva la rotaia di una cremagliera, ma non sapevo come usarla. Parallelo al binario si inerpicava un sentiero e così, con la mappa in mano, ho iniziato la salita. Il primo tratto era quasi verticale, con gradini stretti e faticosi. Poi si è fatto più leggero e la fatica veniva compensata dal paesaggio che si apriva sul mare. Non c’era nessuno: solo muretti a secco e frastagli di terreni, uno accanto all’altro. Taluni coltivati, altri abbandonati. Quello dello zio poteva essere uno qualunque. Sono salito ancora. Ho superato una piana in cui giacevano resti carbonizzati di non so quali materiali ed era impiantata una strana doccia, quello sembrava, di grandi dimensioni. Allora mi sono ricordato di quando lo zio Franco mi aveva parlato dell’incendio all’impianto di depurazione, vicino alla sua proprietà. C’ero quasi. Ho superato altre piane, fino a quando sono giunto sulla cima del colle e il paesaggio è cambiato. Tutto intorno c’erano terreni ampi e ben curati che davano l’idea di essere gestiti da un unico proprietario. Un piccolo casolare di pietre scure e tutto intorno piane, muretti e viti. La proprietà si estendeva per una distanza che non sapevo misurare a occhio, e che, in ogni caso, andava dal punto più scosceso della collina fino al casolare, poi ancora verso di me e oltre, dove il crinale si gettava nel mare. Anzi no, terminava prima. C’era una recinzione in fondo alla proprietà. Al di là della recinzione, un fazzoletto di terra, prima dello strapiombo sul mare. Sulla mappa coincideva: l’avevo trovato. La recinzione lasciava un varco per accedere al terreno, che non era niente, non aveva niente. Solo un pezzo di prato senza piante né altro. Era il finale di una delle tante piane che si susseguivano. Al centro del terreno c’era una sedia. Mi ha ricordato una sedia di scuola, di quelle che usavano i bidelli. La seduta e lo schienale erano fatti di cordini elastici azzurri.
Aveva ragione mia moglie: lo zio aveva tirato uno scherzo anche a me. Mi sono seduto sulla sedia al centro del terreno che avevo misurato, quattro passi lunghi per quattro passi lunghi e un po’.
Poi una voce mi ha salutato alle mie spalle. Mi sono voltato e c’era un uomo, al di là della rete. Ho ricambiato con un gesto della mano.
Lei dev’essere l’erede di Franco, mi ha detto.
Era mio zio, gli ho risposto.
Spero che non sia uno zuccone come lui, mi ha detto. E poi ha aggiunto: ma mi sembra un ragazzo a posto.
Ho capito che era il vicino, quello di Pisa. Mi sono alzato, ho fatto qualche passo verso di lui e mi sono fermato al di qua del varco, nella mia proprietà.
Lo sa qual è la storia di questo terreno? Mi ha chiesto. Io ho fatto di no con la testa e lui si è chinato in avanti. Il vento si era alzato e ci scarmigliava i capelli.
Suo zio doveva vendermi tutto quanto: i terreni che partono da laggiù – ha indicato un punto alla sinistra del casolare – fino a là – e ha spostato il dito da un’altra parte. Tutto doveva vendermi, anche questo – poi ha battuto il piede in terra.
E invece? Ho detto io, che già immaginavo com’erano andate le cose.
E invece questo pezzo è rimasto fuori. Lui ha sempre detto che era stato un errore, ma io non ci ho mai creduto.
Ho riso. Non ci credo neanch’io, gli ho detto.
Sennò me lo avrebbe ceduto in un secondo momento, le pare?
Certo, ho detto io.
L’uomo faceva appena intravedere una rabbia che aveva covato per anni. Macché! Ha detto, e si è aggrappato con le mani alla recinzione. Eppure, le dico che negli ultimi tempi sarà venuto quassù quante, cinque volte? Non di più, garantito.
È un bel posto, gli ho detto, e mi aspettavo che, dopo qualche giro di discorsi sui terreni e qualche complimento sulle viti, mi avrebbe fatto una proposta di acquisto. Invece il vento è cessato all’improvviso e un istante dopo sono cadute le prime gocce di pioggia. Il vicino si è voltato e senza sprecare parole, né offrirmi riparo, ha accennato appena un gesto con la mano e si è allontanato.
Ho dato un’ultima occhiata al mare, che era cambiato sotto l’ombra delle nuvole, poi ho imboccato il sentiero in discesa e dopo venti minuti sono arrivato alla macchina.
Sono entrato in casa bagnato da capo a piedi. Mia moglie stava dietro ai compiti di mio figlio più grande e intanto sistemava la casa, tenendo il più piccolo in braccio. Non le si staccava di dosso.
Lo hai trovato, almeno? Mi ha chiesto.
Sì che l’ho trovato, e le ho spiegato com’erano andate le cose.
Glielo vendi?
Mica me lo ha chiesto. Non avesse piovuto all’improvviso, forse.
Quando sono andato la seconda volta, un mese più tardi, mi sono accorto che la rete era stata spostata. Era opera del vicino, ne ero certo. L’aveva staccata e ripiantata un po’ più in là, verso lo strapiombo. Vedevo ancora i segni per terra, il punto dove i paletti erano stati conficcati fino a qualche giorno prima. Si trattava di pochi centimetri, un palmo della mano. Mi sono tirato su le maniche della camicia e ho provato a sfilare uno dei paletti. Non riuscivo a sollevarlo e neanche a farlo oscillare. Ho provato e riprovato, prima con un paletto, poi con l’altro, ma niente. E se non staccavo i paletti, non potevo spostare la recinzione. Ho fatto un giro per il sentiero che andava lungo le terre del mio vicino. Di lui neanche l’ombra. Ho pensato che fosse rinchiuso in casa e che mi stesse osservando dalla finestra. Sono tornato alla recinzione convinto che in un modo o nell’altro avrei tirato via quei maledetti pali, a costo di buttarli giù a calci. Quando ho terminato, uno dei due era piegato in avanti: non ero riuscito a fare altro. Anche la rete, da quel lato, si era piegata e adesso il varco d’ingresso era dritto da una parte e storto dall’altra. Avevo un taglio sulla mano, un’unghia rovinata e le scarpe imbrattate di terra.
Sono rientrato a casa con l’intento di organizzarmi e tornare su al più presto, questa volta armato degli strumenti giusti per sfilare quei pali e rimetterli al loro posto.
Ma poi il lunedì si è portato dietro tutti i nostri problemi. Sembrava che le mie settimane non durassero sette giorni, ma lunghe fasi di apnea. Avevo troppi casini a cui pensare. I clienti che non pagavano, le tasse che scadevano, un tale che mi aveva denunciato, i miei figli che non volevano saperne di fare quello che dovevano fare. E mia moglie, che era l’addetta alla gestione economica della famiglia. Lei faceva quello che poteva e pure io. Ma la mia testa andava lassù. Quando lavoravo o quando la sera mi appisolavo sul divano, quando stavo dietro ai compiti di mio figlio grande o quando spingevo la carrozzina del piccolo, immaginavo che il vicino, lassù, stava spostando ancora la recinzione e mi rubava altri centimetri. Stava mangiando il mio spazio. Già ne avevo poco, mi dicevo, di spazio, e lui me ne portava via dell’altro. Quello che mi mancava quaggiù era quello che lui voleva portarmi via lassù: la possibilità di staccare, di prendere e di andare a sedermi su quella seggiola.
Poi nostro figlio più grande ha iniziato a non mangiare e tutto quello che fino al giorno prima ci aveva sfiancato, è passato in secondo piano. Quei problemi non erano finiti, ma non ci pensavamo più. Semplicemente. I soldi, le scadenze e tutto il resto, da una parte. Parlavamo solo di analisi del sangue, di feci e di urine. Se gli faceva male l’inguine e se le ghiandole sotto le ascelle si erano gonfiate. Se aveva la febbre. Se si sentiva stanco. Il nostro calendario veniva scandito dagli appuntamenti negli studi medici e dagli esiti delle analisi. Credo che fossimo proprio al limite, in quei giorni. Ci svegliavamo, vivevamo e tornavamo a letto in costante stato di agitazione. In studio e a casa, andavo in bagno e sputavo sorsate di bile. Quello più in sé era rimasto nostro figlio. Anche il medico se n’era accorto. Dovete curarvi, ci aveva detto più di una volta. Per vostro figlio stiamo facendo tutto il necessario, ma voi di questo passo non ne uscirete.
Non c’era spazio anche per quello. Per quello che stava succedendo a nostro figlio, intendo. E siccome lui era la cosa più importante, abbiamo fatto spazio comunque e siamo saltati per aria. Il medico aveva ragione. Ma per fortuna, aveva ragione su tutto: nel giro di qualche tempo nostro figlio si è rimesso. Però lo stato di agitazione è rimasto. Non abbiamo mangiato una torta per festeggiare, non abbiamo segnato il punto di risalita. Portavamo ancora i segni di quella battaglia che ci aveva provati tutti. Eravamo felici, ma non riuscivamo a gioire. Intorno a noi c’erano le tracce della devastazione che avevamo creato. Le nostre cose stavano ovunque e il fine settimana sembrava non bastare mai a farla rientrare in una parvenza di ordine. Usavamo il balcone come un contenitore di spazzatura. Al mattino ci vestivamo con gli abiti che trovavamo in giro per la casa. La nostra macchina era diventata un secondo ripostiglio, un punto di stoccaggio per le cose che dovevano prima o poi fare ingresso in casa o uscirne in modo definitivo: alla discarica, al centro per la raccolta di beneficenza, alla sarta o in lavanderia. Anche il nostro gatto ne risentiva. Anzi, era l’emblema della nostra condizione. Girava spelacchiato e ridicolo, con matasse di pelo pronte a staccarsi e chiazze di pelle rosa dove il pelo era già venuto via.
È stato il nostro vicino, quello di Pisa, a ricondurci alla realtà, con una telefonata. Mi ha riportato su, con la sua voce e i suoi discorsi, su al terreno e a questioni diverse, alle quali pensavamo prima di cadere in quel pozzo nero.
Il pomeriggio l’ho trascorso per buona parte in garage. I bambini giocavano con quello che trovavano, per lo più cose pericolose che richiedevano il mio continuo intervento. Ho riempito una borsa a tracolla con guanti da lavoro e vari strumenti e l’indomani mattina, domenica, sono montato in auto con mio figlio grande.
Perché non prendiamo la cremagliera? Mi ha chiesto appena l’ha vista. Io avevo già imboccato il sentiero e saggiato il peso della sacca con gli attrezzi. Mi ero documentato su come si usava la cremagliera e la cosa mi pareva fattibile.
D’accordo, gli ho detto, tieniti forte, metti il sedere su quel pezzo di cartone e puntati coi piedi. Ho tirato la cordicella e il motore si è acceso. Siamo saliti scoppiettando per conquistare la collina e mio figlio aveva un gran sorriso.
Il vicino stava in piedi alla fine del binario.
Ce l’ha l’autorizzazione per salire con questa?
Certo che ce l’ho, gli ho detto.
Ho fatto scendere mio figlio dalla cremagliera e in qualche modo sono riuscito a spegnere il motore. Mio figlio lo ha salutato con più educazione di quella che meritasse e ci siamo avviati verso il terreno. È tutto questo? Mi ha chiesto guardando le piane circostanti.
No, gli ho risposto io, queste sono sue. Il nostro è questo, gli ho detto, e ho indicato il fazzoletto di terra oltre la rete sbilenca. Lui ci è entrato e ha guardato intorno come se si fosse trovato dentro a una stanza.
Bello, mi ha detto. Si è seduto sulla sedia. Proprio bello, ha ripetuto e si messo a leggere il suo libro.
Fa come suo zio, mi ha detto il vicino. Le poche volte che veniva quassù, leggeva o se la dormiva o mi guardava che lavoravo.
Ho tirato fuori la mia mappa e ho finto di cercare punti di riferimento per individuare i giusti confini.
Dica un po’, l’ha fatto lei questo danno? mi ha chiesto.
Sicuro. Guardi, ci sono ancora i segni per terra. E col piede gli ho indicato due punti. Quando sono venuto su la prima volta, la rete stava qua.
E chi lo dice?
Come, chi lo dice? Lo dico io, è così e basta, me lo ricordo e poi ci sono ancora i segni. Non li vede? E per spostarla, lei è entrato qua dentro, di sicuro, nella mia proprietà.
Certo, mi ha risposto lui. Secondo lei si pulisce da solo qui? Chi la taglia l’erba secondo lei?
Non lo faccia mai più, gli ho detto. E comunque i confini giusti sono quelli che sono.
Questo lo dice lei. Se non si fa la manutenzione, i confini si spostano. E lo ha detto con tanta serietà che avrei potuto crederci.
Si spostano?
Lei non è pratico, non è di qua. Si vede. La manutenzione costa, cosa crede? I muretti a secco e le sterpaglie, mica si può lasciarli così, che viene un macello. Ma se uno li lascia così, invece, dopo un po’ i muretti crollano, le sterpaglie crescono e i confini si spostano.
Mi sono alzato e ho segnato con il piede una linea sull’erba.
Qua, gli ho detto, la rete stava qua. E deve stare qua.
Non lo so, io, ha detto lui. Faccia così, dia incarico a un tecnico, che venga su e batta i confini.
Io non chiamo nessuno, gli ho risposto, lo faccia lei se vuole. Intanto io rimetto i pali dove stavano prima.
E l’ho guardato, inginocchiato in terra con due attrezzi presi a caso dalla sacca.
Mi sono messo ad armeggiare sul primo palo, quello che avevo già piegato. Ero convinto che da un momento all’altro il vicino avrebbe provato a fermarmi.
Invece mi ha detto: in quel modo non ci riuscirà mai. Poi si è voltato e se n’è andato.
Io ho continuato a lavorare sul palo con la pinza e la chiave inglese. Non sapevo come fare, ma non potevo desistere subito. Ho continuato alcuni minuti, poi ho dato un’occhiata alla casa del vicino.
Sarà mica andato a prendere il fucile? Ho chiesto a mio figlio. Teneva il suo libro aperto, appoggiato sulla pancia, e si guardava intorno.
Mia moglie si era raccomandata di vendere il terreno. Se non ti fa un’offerta lui, mi aveva detto, fagliela tu. Anche fosse una miseria, mi aveva detto, ci farebbe comodo. E aveva ragione, qualunque somma ci avrebbe fatto comodo in quel momento. Ma sapevo che un’offerta, a quel punto, non l’avrei fatta e che una proposta del nostro vicino, in ogni caso, non l’avrei accettata.
Ho mollato gli attrezzi e mi sono seduto in terra accanto a mio figlio.
Serve un’altra sedia, pa’, mi ha detto.