Mia nonna si vedeva Il pranzo è servito. Io abitavo da lei e quando tornavo da scuola appena aprivo la porta sentivo “tattarattatta tatattaratattata tattarattatta tatattataratà” e subito dopo la voce di Corrado.
Sul tavolo di fòrmica trovavo un piatto di spaghetti al pomodoro riscaldati che mi piacevano da morire perché nonna mangiava a mezzogiorno e quando io arrivavo all’una e un quarto li ripassava in padella e diventavano croccanti. Gli spaghetti croccanti erano la cosa che mi piaceva più di tutte. Un’altra cosa che mi piaceva più di tutte era andare a casa del mio migliore amico Mathieu a fare i compiti, ci volevo andare sempre perché sua mamma Solène aveva un profumo buonissimo, per merenda ci dava dei dolci che a casa mia non avevo visto mai e poi mi chiamava Enrrrico con quella erre un po’ così che mi sembrava un gatto quando fa le fusa. Nel pomeriggio dava ripetizioni di francese ai ragazzi del liceo e pensavo che da grande ci sarei andato anch’io a fare le ripetizioni da lei.
A casa mia Mathieu non ci veniva mai, evitavo di invitarlo perché a volte quando facevo i compiti mia nonna mi chiedeva una pagina del mio quaderno a righe per esercitarsi a fare la firma. Mia nonna era analfabeta però aveva imparato a tracciare il suo nome per non vergognarsi quando c’era da firmare qualcosa e ogni tanto doveva ripassare per non dimenticare quelle linee che si era studiata per anni senza sapere cosa stava scrivendo. Mi vergognavo di far vedere a Mathieu che vivevo con una vecchia analfabeta. Sua nonna era una pittrice, lui la chiamava mamie, che in francese significa nonna. Dipingeva soprattutto paesaggi e casa sua era piena di vedute della zona dove era nata, la Costa Azzurra. Nei suoi quadri vedevo posti che non avevo mai sentito nemmeno nominare: Juan-les-pins, Antibes, Cagnes-sur-mer e poi l’entroterra, Grasse e Biot. I nomi me li aveva detti Solène una volta che glieli avevo chiesti pur di sentirla parlare.
Io all’estero non ci ero mai stato, ma un giorno il primo posto dove sarei andato sarebbe stato sicuramente uno di quei paesi che stavano nei quadri di mamie.
Non me ne sarei mai andato da quella casa, anche se i genitori di Mathieu erano divorziati mi sembrava proprio una casa normale e le volevo anch’io una mamma e una nonna così, e volevo parlare due lingue, andare in vacanza, mangiare in sala da pranzo e festeggiare i compleanni con la torta con sopra scritto il mio nome. Volevo tutte quelle cose che prima non conoscevo e che adesso vivevo da ospite, e una volta tornato a casa mi mettevo nel letto accanto a quello di nonna e prima di dormire cercavo di fissare tutte quelle cose belle nella memoria così nessuno me le avrebbe più potute portare via, mi sembrava di vivere una vita parallela in cui avevo tutto, ma era in prestito.
Alla fine di giugno era il compleanno di Mathieu, compiva 11 anni, Solène aveva organizzato una festa in piscina e io non ci potevo proprio andare.
«Allora sabato ci vediamo direttamente in piscina?» disse lei.
Io non sapevo nuotare, non avevo nemmeno un costume e non sapevo cosa inventarmi per fargli un regalo. Mia nonna usciva di casa solo per andare al supermercato e al cimitero e io non avevo soldi per andare in un negozio a comprare qualcosa. Erano già due notti che non ci dormivo, avevo pensato tantissime cose, ma non avevo trovato nessuna soluzione. Però mi sa che Solène lo aveva capito, perché anche se non gliel’avevo mai detto, le sapeva benissimo tutte queste cose su di me, di nonna e tutto il resto. Forse era per quello che mi faceva sempre andare a casa sua, le facevo pena. E quando vide che non rispondevo mi disse che venerdì sera potevo restare a dormire da loro. Non mi sembrava vero, la stanza degli ospiti era tutta per me, io non ci avevo mai dormito in una stanza da solo.
Il sabato mattina quando mi alzai, ai piedi del letto su una panchetta rivestita di velluto verde c’era un costume blu con una riga rossa e i sandali di gomma trasparenti. Mi sa che lo sapeva che non ce l’avevo il costume.
Salimmo tutti in macchina, Solène, mamie, Mathieu e io, e dopo un po’ di tempo, non so quanto perché non ci feci caso, arrivammo in un posto tutto verde, si entrava da un grande cancello automatico e da un lato c’era un cartello con una scritta dorata che diceva La Piscine – Sports Club.
Quando arrivarono gli altri amichetti di Mathieu mi resi conto che non c’era nessuno della nostra classe, erano amici che aveva conosciuto da qualche altra parte, pensai. Erano arrivati con i genitori o solo con le mamme e si conoscevano bene perché si baciavano e si abbracciavano tutti. Noi piccoli andammo verso la piscina, tutti si tuffavano e nuotavano da una parte all’altra, tiravano palloni di gomma colorati e si schizzavano l’acqua. Io rimasi sul bordo a guardare perché l’acqua era troppo alta e non si toccava. Per un po’ me la cavai così, facendo finta di niente, mentre mamie e Solène erano sdraiate in una zona solarium a bere da bicchieri alti e tutti colorati, ridevano e scherzavano con le altre mamme spargendo nell’aria calda profumi francesi e odore di crema solare. Io non vedevo l’ora di andare via. Era la prima volta che mi sentivo così con loro, quando stavamo in casa facevamo i compiti e giocavamo con i videogiochi, a volte mamie ci faceva disegnare e mi diceva che ero bravo, ma finché eravamo da soli era un’altra cosa. Io quei ragazzini non li avevo mai visti e sapevano nuotare tutti quanti. Per fortuna erano presi dai giochi e non mi notavano. Poi a un certo punto un ragazzino grosso coi capelli rossi uscì dalla vasca e andò a prendere un frisbee di quelli con cui si può giocare in acqua e mi vide.
«E tu chi sei?» mi chiese.
«Mi chiamo Enrico, vado in classe con Mathieu».
«Alla scuola dei poveri?» disse così e andò via, senza farmi rispondere.
Io non sapevo cosa fosse questa scuola dei poveri, a me sembrava una scuola normale. Solène dopo i primi tre anni di elementari in una scuola privata aveva fatto spostare Mathieu in una scuola pubblica perché voleva fargli vivere un’esperienza al di fuori del suo ambiente, per far crescere suo figlio in modo che potesse conoscere i vari aspetti della società, gli sarebbe servito come esperienza per il futuro. Era per questo che Mathieu era arrivato nella mia classe solo in quarta elementare. Era stato da subito il mio migliore amico, ma in quella piscina mi sembrava di essere solo uno sconosciuto che si era fermato a guardarli giocare per curiosità e poi sarebbe andato via. Io però ero arrivato con loro e non sapevo dove stavamo, non sapevo nemmeno se potevo uscire dal cancello e trovare una fermata dell’autobus vicina per tornare a casa da nonna. Ero intrappolato e il tempo passava così lentamente che tutto sembrava immerso in una sostanza gelatinosa e non nell’aria normale come quella che si respirava fuori dal club.
Il ragazzino coi capelli rossi che non mi aveva nemmeno detto come si chiamava ripassò a fianco a me con il frisbee giallo e verde fosforescente e con una manata dietro la schiena mi buttò in piscina.
Mi ricordo che per un po’ agitai le braccia cercando di tirarmi su come se fossi su una superficie solida ma non toccavo e l’acqua mi entrava in bocca e così finì che andai giù. Continuavo a muovermi ma a rallentatore tendendo le braccia verso la superficie e nelle orecchie sentivo risate e pezzi di frasi «ha il mio costume», «non ha mai visto una piscina», «ahahah», «non sa nuotare». Sentivo tutto ovattato come quella volta che avevo avuto l’otite e nonna mi aveva messo dei pezzi di cotone nelle orecchie per non far uscire le gocce di medicinale. Poi ho visto tutto nero e non mi ricordo più niente, però so che mi ritrovai steso su un asciugamano morbidissimo, mi sembra ancora di sentirlo dietro la schiena. Gli asciugamani di nonna erano duri perché lavava sempre i panni a 60 gradi e quando la mattina mi asciugavo la faccia tutti quei filetti di cotone ruvidi mi grattavano la pelle, quello invece era l’asciugamano più morbido del mondo. Quando aprii gli occhi, sopra di me c’era la faccia di un signore con la pelle tutta raggrinzita dal sole.
«È tutto a posto, signora, suo figlio sta bene» disse il bagnino a Solène.
«Non è mio figlio» si affrettò a dire lei.
Avrei voluto che chiamassero nonna per farmi venire a prendere e tornare a casa ma mia nonna non guidava, così per non rovinare la festa a Mathieu mi fecero riaccompagnare a casa da uno che lavorava al club come tuttofare. Gli facevano fare proprio tutto se gli avevano chiesto perfino di riaccompagnare me a casa. Ci vollero almeno quaranta minuti. Arrivato sotto al palazzo il ragazzo mi accompagnò fino all’ingresso, aspettò che suonassi al citofono e che si sentisse lo scatto del portone.
«Grazie» gli dissi mentre andava via.
«Per così poco, ciao».
Non so perché m’è venuta in mente questa cosa proprio adesso che sto davanti alla bara di mia nonna in attesa che venga tumulata, forse perché mi sembra di essere immerso in un liquido denso e ho l’impressione che il tempo scorra piano, invischiato nella trama gelatinosa di questa estate di merda.
Dopo quella volta, a casa di Mathieu non ci andai più, le elementari erano finite e lui tornò a scuola privata mentre io iniziai la prima media vicino casa.
Dopo il funerale devo tornare a lavorare, stasera c’è una festa di compleanno a La Piscine dove lavoro come tuttofare, ho iniziato subito dopo il diploma e ora che è morta nonna non penso che smetterò presto.
Scendo alla fermata dell’autobus sul ciglio della strada, cammino veloce lungo il fosso con i piedi immersi nell’erba bruciata dal sole perché la strada è stretta e piena di curve. Entro di corsa nel cancelletto d’ingresso dei dipendenti e vado subito a pulire le docce. La stanza delle docce è stata rinnovata da poco, sul muro le piastrelline di mosaico azzurre riflettono l’acqua e con la luce del sole che entra dalle finestre in alto sembrano brillare come il mare quando è calmo e appena increspato in superficie, passo lo straccio su tutto il pavimento e poi asciugo con uno spazzolone apposito che ha una specie di asciugamano attaccato in fondo al posto della spazzola. Poi richiudo le finestre e passo nella sala asciugacapelli, questa non è stata ancora ristrutturata e ci sono dei fòn automatici a gettone. L’ultimo a sinistra è quello più comodo e sotto ha una panchina doppia invece dello sgabellino singolo che hanno tutti gli altri apparecchi, vogliono usare tutti quello, è l’asciugacapelli più ambito perché c’è più spazio, però da un po’ di tempo non funziona bene così ci ho messo un cartello con scritto fuori servizio a pennarello rosso in attesa che lo riparino.
Mi sbrigo a passare lo straccio anche lì e corro a sistemare le cabine intorno alla piscina, gli asciugamani devono essere pronti prima che arrivino gli ospiti. Appena finisco di mettere i teli di spugna nell’ultima cabina vedo una quindicina di ragazzi che arrivano portando in spalla il festeggiato e cantano urlando «Tanti auguri a te, tanti auguuuri a te, tanti auguuuri a Mathieu, tanti auguri a teee!» e poi lo buttano in piscina. Tutti gli altri lo seguono mentre le ragazze si cambiano nelle cabine, si stendono a prendere il sole sulle sdraio e iniziano a ordinare cocktail e piatti di frutta fresca, spargendo nell’aria l’odore di crema solare al cocco.
Alle undici e mezza arriva il carrello con una torta a tre piani con scritto buon compleanno Mathieu e sopra ventuno candeline accese. L’ultimo compleanno che avevo festeggiato era stato quello di nonna e quest’anno invece di lasciare che si facesse da sola una crostata con la marmellata di ciliegie come al solito, le avevo regalato una torta per non farla stancare perché era già malata da troppo tempo. Era una tortina piccola e sopra c’era scritto solo auguri perché di più non c’entrava.
Mentre i camerieri sistemano la torta vicino alla piscina per fare le foto, un ragazzo un po’ grosso coi capelli rossi passa un dito sul bordo del primo piano della torta, tira via un ciuffo di panna e se lo lecca: «Bravi, l’avete fatta voi?» dice ai camerieri, come se davvero non sapesse che i camerieri non fanno le torte, e se ne va.
Io aspetto lungo il vialetto che porta alle docce, ormai la serata è quasi finita e devo rimanere nei paraggi nel caso qualcuno degli ospiti abbia bisogno di qualcosa. A un certo punto quasi tutti vanno a farsi la doccia, seduti sulle sdraio restano solo il ragazzo coi capelli rossi, un altro magrissimo e il festeggiato che si passano il Dom Pérignon bevendo direttamente dalla bottiglia. A mezzanotte e mezza, quando tutti gli altri escono dalle docce e si avviano verso il parcheggio a riprendere le loro macchine, anche gli ultimi tre vanno a farsi la doccia. Passano per primi il rosso e il magro che si tengono a vicenda per non cadere lungo il vialetto di erba circondato da sassi bianchi, e dietro di loro, ravviandosi il ciuffo lungo di capelli, cammina lento Mathieu. Sento un brivido perché mentre avanza mi guarda e non ho voglia di essere riconosciuto, ma quando mi passa davanti mi rendo conto che non si è nemmeno accorto di me.
Non vedo l’ora di andarmene via e prendere l’ultimo bus per andare a casa di nonna che ormai è solo casa mia ma credo proprio che continuerò a chiamarla casa di nonna per sempre.
Mi avvicino all’entrata dei bagni in attesa che escano tutti per chiudere, da dentro viene il preludio della suite per violoncello solo in sol maggiore di Bach, uno dei pezzi disponibili in una specie di jukebox che si trova sulla parete delle docce. Lo ha fatto installare uno dei proprietari quando c’è stata la ristrutturazione per far rilassare i soci del club mentre si sciacquano via il cloro di dosso. Dalla porta vedo la saletta degli asciugacapelli dove il magro si è già vestito e chiude un borsone venendo verso l’uscita, dietro di lui il rosso si pettina davanti a uno degli specchi. Hanno fatto un casino, c’è acqua dappertutto e gli asciugamani sono sparsi ovunque, sulle panchette, sugli asciugacapelli, sul pavimento. Mentre il magro e il rosso vengono verso la porta per uscire mi sposto di lato e li faccio passare.
Finalmente Mathieu sbuca da dietro la parete delle docce completamente nudo schiaffeggiando i piedi bagnati sul pavimento azzurro, la musica finisce, arriva fino in fondo alla saletta degli asciugacapelli, sceglie quello sull’angolo a sinistra e senza badare al cartello fuori servizio scritto a pennarello rosso, prende il fon automatico guardandosi allo specchio, si tira su il ciuffo con la mano sinistra e poi spinge il bottone nero per avviare il getto d’aria, ma non succede niente. Lui insiste, dà delle botte sull’apparecchio attaccato al muro e continua a premere il pulsante tirando il filo. Alla fine il getto d’aria parte, il cavo ormai tutto sfilacciato guizza sul pavimento e parte la corrente, si propaga attraverso l’acqua, si insinua sotto la pianta dei piedi di Mathieu che vibra per qualche secondo e poi cade a terra con un tonfo, batte la guancia destra sul pavimento e rimane così, immobile, a fissare me incorniciato nello schermo della porta che di spalle vado via.