A noi, che siamo sopravvissuti
«Il punto è trovare l’equilibrio, smorzare l’onda», dice e con il dito traccia una linea.
La mano resta sospesa tra le sue spalle e la parete di roccia che ci corre accanto definendo la strada come un nastro parallelo alla riva, poi torna indietro, rigida. La guardo stupendomi di quanto assomigli alla mia.
«Hai ragione».
«Come no».
Fa qualche passo e si ferma. Sfila dalla tasca il blister delle pastiglie. «Lo pensi davvero?»
Non è una frase che gli appartiene, neppure quel gesto. Sono cose che trova nei libri, penso. Ieri sera mentre gli preparavo il letto ne ho visto uno dentro il suo zaino: Diventa la persona che vorresti incontrare.
«Certo. Trovare un equilibrio è importante, no?» Prendo nella borsa la bottiglia d’acqua e gliela porgo. Edoardo se la stringe un po’ tra le dita. «È che ho iniziato a pensarci tardi», dice.
«A cosa?»
«A tutto. Prima non pensavo a niente».
Dà un lungo sorso e mi restituisce bottiglia e tappo. Io lo avvito cercando di capire se la casa che si vede oltre la curva sia la stessa che ha descritto il tizio al telefono. «Dovrebbe essere da queste parti».
Non risponde, continua a fissare qualcosa in direzione del lago.
Al di là di un gruppo di salici c’è un’insenatura bassa e piatta che procede quasi senza pendenza fino al livello dell’acqua. Tra la ghiaia e il fango secco della riva un paio di anatre prendono il sole. Poco lontano, nascosti da una fitta siepe di canne, piccoli uccelli neri emettono suoni brevi e acuti, sproporzionati rispetto alle dimensioni dei corpi.
Oltre il ponte che abbiamo superato cinque minuti fa non sono mai stata. In tre anni i confini della mie passeggiate si sono spostati di poco: a nord fino al cartello che segna l’inizio della superstrada, a sud fino al ponte. L’arrivo di Rumba non ha cambiato le mie abitudini. Le ho comprato un guinzaglio e ho organizzato un angolo della cucina con la sua ciotola, un cuscino, un pollo di plastica morbida che la commessa del negozio di animali mi ha assicurato essere commestibile, e ho continuato a muovermi dentro la mia scacchiera.
«Spero che tu mi dica se ti sto tra i piedi».
«No, anzi. Sono contenta». Mi fa segno di non continuare. «È bello qui», dice. «Per viverci, intendo. Sembra bello».
Mi guardo intorno e l’unica cosa che riesco a pensare è che è imbarazzante stare in un posto solo perché non sai dove altro andare. «Non saprei», dico.
Abbiamo superato la curva; ora quella che era solo la sagoma di un tetto si mostra per quello che è: una villetta su una strada provinciale, poco distante dal centro cittadino. Guardo in alto. La montagna occupa il cielo, ma senza schiacciarlo. Ogni cosa, qui sotto, sembra più solida. Tra noi e la casa non ci saranno che un centinaio di metri.
«Ti capita ancora di sentirlo?»
«Come? No».
«E ti piacerebbe?»
«No», dico mentendo.
«Per quanto vale, penso sia meglio così». Ride. «Non che il mio parere conti un granché».
Controllo sul telefono la posizione. Davanti a noi c’è un cancello, subito seguito da una striscia di prato ordinato dove ci sono un’altalena di plastica e uno scivolo. La macchina, un fuoristrada dall’aria usata ma ancora in buone condizioni, è ferma sul viale che porta fino all’ingresso.
«Pensi che un cane possa ricordare una strada che non ha percorso con le sue zampe?»
«Non credo. Comunque è un bene che qualcuno l’abbia trovata prima che la investissero».
Edoardo mi guarda. La mano ha ripreso a tremargli. «Andiamo?»
Lo guardo anch’io. Lui fa un passo e si ferma. Rimetto il telefono nella borsa.
«Forse ci siamo sbagliati» dice. «Forse la casa non è questa».
Gli sorrido e lo prendo per mano. Camminiamo dando le spalle alla montagna. Adesso il nostro orizzonte è la superficie piatta del lago.