Geomanzia

Cammino sul bordo del marciapiede. Tenermi in equilibrio mi aiuta a distinguere la pietra dura di mia nonna dalla mia pasta morbida. Non sempre mi riesce così facile. I momenti di maggiore disperazione arrivano quando mi confondo e credo di essere lei.

La morale cristiana. Il lumino acceso davanti alle facce dei morti. E invece no.
Quando è morta, nonna mi ha abbracciato. Si è fatta sentire, per un po’, poi ha smesso. Sono rimaste le cavolaie tra l’erba alta.

La testa da monaca buddista di mia sorella spunta da sotto le lenzuola. Le lenzuola si alzano e abbassano lentamente, al ritmo del suo respiro. Si è addormentata in fretta.
Prima di addormentarsi ha compiuto azioni di rifiuto. Ha allontanato il piatto, ha avanzato il pranzo. Ha storto la bocca lamentando un po’ di nausea.
Il gusto per i sapori non si è ancora aggiustato.

Mia sorella passa le sue giornate davanti a uno schermo. Non esce quasi mai. Se lo fa, è perché vi è costretta. Odio la vita che conduce. Odio dover assistere alla sua vita. Da qualche tempo sto meditando la fuga.
I mezzi non mi mancano. Ho dei contatti, in paese. Amici che mi potrebbero ospitare. Nascondere le mie tracce.
Lei mi seguirebbe, lo so. Tenterebbe di richiamarmi indietro. Lo ha già fatto. Devo essere astuta. Devo imparare dai miei errori, per evitare che il prossimo tentativo sia un nuovo fallimento.
Questa volta resto calma. Non agisco d’impulso.
Dicono che la pianificazione sia fondamentale. Così pianifico.
Intanto lei mi osserva. Lo so che mi osserva. Ha capito tutto. Ha un fiuto formidabile. Non la si può trarre in inganno. Di solito quando fa così mi tradisco subito. Il punto è che mi sforzo troppo di nascondere le mie intenzioni. Lei sa leggermi al negativo.
Agisco in piena luce e i sospetti di mia sorella si dissolvono.

La fissazione per le case è recente. Oppure l’ho sempre avuta e solo ora ne sono diventata consapevole. In fondo era quello che faceva il nonno. Riparare le case. Era quello a cui pensava la nonna. Tenere la casa.
È stato il lavoro di mia madre, ricucire le stanze. Di mia sorella, occuparle.
In ogni caso, per quanto la faccenda delle case sembri essere una questione di famiglia, mi è chiaro che è un’ossessione piuttosto inflazionata. Non che me ne importi.
Bene.

Ci siamo messe d’accordo, la mia amica e io: cerchiamoci una dimora. Quando siamo insieme ci piace usare parole magniloquenti. Lei, però, mi pare si sia arresa. Prima di provarci, così.
«Ti sei arresa?», le ho chiesto.
No, mi fa.
Si era solo offesa.

Gioco: abitare è un sintomo di dimorare. Dimorare, a sua volta, è una forma dello stare. Stare ha a che fare con l’attrito di mani e piedi. Stare è una risposta.
Un limite. Un confine. Una scorza.
Traslocare vuol dire trasformarsi.
Ma non è che uno si può trasformare sempre. Le circostanze devono essere propizie. Serve un’urgenza. Un pericolo mortale.
Ascolta, fidati di me: ritieniti fortunata, se ti capita un’emergenza. Così mi ha detto la mia amica.
Non quella delle case, un’altra.

Sto scrivendo un manuale. Una specie di nuovo feng shui. Il primo capitolo si intitola così: La dimora va costruita su una faglia. Sottotitolo: Solo i limiti offrono spazi edificabili. Non ho ancora pensato allo svolgimento, sto aspettando il momento giusto. Intanto mi rafforzo nella convinzione che edificare la propria casa sulla sabbia sia la scelta giusta. Aspettare che arrivi la tempesta, lasciare che i muri crollino e poi ricostruire. Una casa di roccia è una casa che non si rinnova.
È una casa morta.

Joel è la mia terza amica. L’unica che chiamerò per nome. A farci incontrare è stata questa storia del trasloco.
Joel me l’ha chiesto subito: da sola o in coppia? La risposta che le ho dato deve averla rassicurata, perché mi ha rivolto un mezzo sorriso. Ah, noi invece siamo una coppia.
Noi, ha detto, anche se era da sola.
Mi insegna che è più facile trovare un appartamento in affitto se si dice di essere sposati. Maggiori garanzie di pagamenti puntuali.
Rinfrancata dal mio stato di famiglia, ha cominciato a raccontarmi un sacco di cose. Parlava veloce, con una leggera inflessione slava. Aveva appena fatto una doccia ma non si era asciugata i capelli, perciò aveva molto freddo. Camminava avanti e indietro mentre elencava le sue referenze, con abile manovra intimidatoria.
Sono stata fortunata a incontrare Joel; se mi fossi imbattuta in qualcuno di meno loquace sarebbero stati quindici minuti di profondo disagio.
Ero quindici minuti in anticipo sull’ora del mio appuntamento. Era lei, Joel, a essere giusta. Lei era arrivata puntuale.

La seconda cosa che ho imparato è che arrivare in anticipo non serve a niente. Il fatto è che nessuno te lo dice, che la puntualità è un’arte difficile da padroneggiare. Quasi impossibile che unansiosa come me ci riesca. Si chiama ansia anticipatoria mica per niente.
L’agente immobiliare è comparso giusto in tempo per evitare, a me e a Joel, cinque minuti di penoso silenzio. Ha aperto il portone dall’interno.
C’è un altro ingresso, sul retro, ha detto. Sono passato di lì per fare più in fretta.
Più in fretta perché Joel lo stava appunto chiamando, quando sono arrivata io.

Niente da dire, la casa è bella. Ristrutturata di recente, pavimento in grès, salotto non piccolo. Però: una cabina armadio, senza armadio; un letto, senza materasso. E due finestre, piccole, che danno su una corte stretta e umida.
Joel è entusiasta, fa domande.
La guardo sinceramente ammirata: sono richieste puntuali, mirate. Si capisce che è un’esperta.
Si muove di qua e di là. Più che muoversi, svolazza. Valuta la distanza tra il divano e il punto in cui dovrebbe trovarsi il televisore. Approva.
Assisto impotente ai virtuosismi di Joel, chiusa nell’equivoco in cui mi sono cacciata. L’agente mi guarda di tanto in tanto con cenni d’incoraggiamento.
Ma qui non c’è proprio nessuno da convincere, caro mio, penso e non dico.
Joel s’informa su anticipi, spese condominiali, deposito. Calcola rapida. Tremila euro per entrare. Per prendere possesso della casa che lei e il fidanzato (marito) stanno cercando da anni. Un po’ mi commuove, il luccichio che le brilla negli occhi.
Joel, hai vinto.
Bene, grazie di tutto, ci risentiamo. Ciao!, mi saluta trionfante.
L’agente si gira verso di me, strabuzzando gli occhi. Ha capito.

Mi guarda costernato: Avrebbe potuto dirmelo subito.
Non capisco se è imbarazzato o arrabbiato.
«Pensavo che avessimo appuntamento alla stessa ora», dico io. Fingo. «Non ho esperienza in questo genere di cose».
Lui è paonazzo. Che esagerazione. Si tratta solo di uno stupido equivoco.
Raddrizzo le spalle e cerco di adottare un tono di voce fermo, quasi professionale, per spiegare la situazione.
Lui cerca di recuperare terreno. Mi chiede se ho visto bene la casa, se ho bisogno di ulteriori delucidazioni – no, ha già fatto tutto Joel, grazie Joel – e precisa che la policy dell’agenzia non è che chi prima arriva meglio alloggia, che valuta curriculum, contratto di lavoro… C’è ancora speranza, lascia intendere.
Mentre scambiamo frasi di circostanza, io nel tentativo di rassicurarlo («non è successo niente, niente di grave»), lui impegnato a recuperare un po’ di contegno professionale, si riaffaccia Joel:
Il mio ragazzo… volevo dire, mio marito chiede se possiamo tornare a vedere l’appartamento.
Agita il cellulare. Il fidanzato-marito è ancora in linea.

Dieci minuti dopo sono di nuovo in strada.
Tartaruga fenice tigre drago. La geomanzia, in certi casi, è come un’assicurazione sulla vita.
Mentre dimoro, un merlo mi osserva.

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