Turi aveva fatto vedere il coltello a Lucia quasi subito, come se mostrarglielo per prima fosse per lei un premio. Invece per Lucia era solo un altro motivo per odiarlo.
Oltre alla sua voce petulante, alle frasi senza un principio di grammatica e allo sporco che gli incrostava le unghie, ora c’era anche il coltello.
Turi aveva seguito Lucia dopo l’uscita da scuola, fino a casa sua. Per tutto il tempo le aveva osservato le scarpe un po’ consumate, ai lati e dietro: le caviglie ondeggiavano dentro i confini di tela. Turi aveva contenuto la sua ombra in spazi delimitati in cui lei non poteva vederlo. Aveva fatto coincidere la sua sagoma con quelle delle auto, dei palazzi e delle poche persone che aveva incontrato nel tragitto. In tanti andavano già al mare, dopo pranzo. Era quasi giugno e la terza media stava per finire. Turi però aveva finalmente trovato un modo per impressionare Lucia, che in classe non lo guardava mai. Lucia aveva rallentato il passo quando era arrivata vicina al portone di ingresso di casa sua, si era tolta una bretella dello zaino e nella tasca che sporgeva in avanti aveva cercato un mazzo di chiavi. Il tintinnio aveva riempito l’aria insieme al profumo di ragù e carne arrostita. Era stato in quel momento che Turi aveva chiamato Lucia, rivelando la sua presenza.
Lei si era voltata rigida nella schiena e tesa sul volto.
Tutto l’equilibrio conservato fino a qual momento, a vederla camminare composta, da dietro, si era trasformato in paura. Era stata la voce di Turi a farla rabbrividire.
Lui stava dentro il suo corpo smilzo e sporco, ondeggiava sui piedi incastrati in sandali troppo stretti e teneva una mano dietro la schiena, come a nascondere una sorpresa.
“Che vuoi?”
“Eddai, Lucì, fammelo un sorriso”.
Lei era rimasta con la mano in aria e le chiavi fra le dita a cercare il buco della serratura per scappare dentro casa. Invece in un attimo davanti alla porta ci stava Turi. Era schizzato veloce in avanti, senza che Lucia potesse impedirglielo. Si era messo fra lei e il portone e le mostrava il suo sorriso disordinato, pieno di denti seghettati e scuri.
“Lucì, ti devo far vedere una cosa importante”.
“Cosa, Turi? A me non interessa”.
“Ma come non ti interessa? E vieni dai, te la faccio vedere, ma nascosti dentro il portone”.
Lucia si era ritratta mentre Turi scavava nel suo palmo per rubarle il mazzo di chiavi e aprire la porta del palazzo al suo posto. Con la mano libera Turi la tirò dentro l’ingresso fresco. Non c’era nessuno per le scale.
“Sei pronta?”
“Ma per cosa Turi? Voglio andare a casa”.
“Ora ti ci mando a casa, ma aspetta solo un po’”.
La stringeva ancora per il polso, non la lasciava andare perché temeva che avrebbe preso di corsa le scale e sarebbe sparita nel suo appartamento.
“Se non mi lasci giuro che urlo!”
“E va bene, va bene”, aveva detto Turi mollandola. Sulla pelle le erano rimaste delle impronte di dita sottili e sudicie. Dentro le pupille Lucia conservava rabbia e timore per quel ragazzo che non voleva lasciarla stare, ma fingeva tranquillità sperando che tutto finisse velocemente. Turi aveva spostato il pugno da dietro la schiena a davanti al petto, stavolta in modo che lei vedesse cosa stringeva. D’istinto Lucia indietreggiò parandosi il viso con le braccia incrociate e contorcendo il suo volto in un’espressione di terrore. Turi nel frattempo sorrideva.
“Uè, Lucì, ma che pensavi? Non ti voglio fare niente a te”.
“Ma sei pazzo, Turi? Eh? Un coltello?”
“Stai calma, non urlare!”, bisbigliò avvicinandosi al viso impaurito di Lucia. “A te non voglio fare niente, solo che te lo volevo far vedere, il coltello”.
“Ma perché a me? Non mi interessa, vattene per favore”, continuava Lucia con voce affannata.
Pensava al pranzo che la aspettava di sopra, alla casa vuota e alla telefonata di mamma che sarebbe arrivata a breve. Sognava il lenzuolo aggrinzito che le si appiccicava alla schiena e il mare freddo che le faceva rilassare le caviglie dopo aver fatto i compiti.
Invece lì davanti c’era Turi, con il coltello in mano e gli occhi impazziti.
“Lucì, tu non capisci. Questo me lo sono fatto a mano io. Dal fabbro su, prima della montagna. È notte e giorno che ci lavoro, anche quando salto la scuola, ti rendi conto?”
Lucia continuava a non capire, ad annuire sperando che poi Turi si stufasse e la lasciasse andare. Invece lui continuava a raccontare tutto di quel coltello e mentre parlava lo stringeva ancora di più. “Con questo, Lucì, posso fare grandi cose”.
“Ti puoi fare anche male, Turi, o paura agli altri, ti prego lasciami”.
“No no, macché male a me. Io voglio fare male a quelli cattivi”.
“Ma ai cattivi quali, Turi?”
“A quelli che danno fastidio a te”.
Lucia dopo le medie andò al liceo, l’unica della loro classe. Turi per farle i complimenti le fece consegnare dei fiori dal suo amico Vincenzo. Li avevano strappati insieme da alcuni giardini curati. Sapevano di selvatico e di pipì di cane. Turi aveva aspettato Lucia in strada tutti i giorni, per sentirsi dire grazie e altre cose che esistevano solo nella sua testa. Avevano una forma sempre diversa, ma con lo stesso sapore. Lucia non era mai scesa e una volta a Turi era sembrato che lei lo stesse guardando, con gli occhi pieni di acqua, ma senza lacrime.
Un giorno Turi andò fuori dalla scuola di Lucia durante la ricreazione, per salutarla dalla grata che separava il cortile dalla strada. La vide appoggiata a un muretto. Aveva un golfino bianco che ricadeva in modo ordinato su una gonna lunga. Ai piedi aveva delle scarpe di tela nuove da cui sbucavano le caviglie sottili di sempre.
Lucia sorrideva, un po’ rossa in viso, a un ragazzo alto, infilato dentro una tuta sportiva di qualche taglia più grande. Anche lui le sorrideva e poi la spingeva un po’ indietro. Turi infilò la mano dentro lo spazio vuoto della grata.
“Lucì, Lucì, sto qua! E guardami!”, iniziò a gridare.
Ma Lucia appena sentì la voce di Turi gli diede la schiena, si avvicinò al ragazzo con la tuta e tirandolo per il braccio salì su in classe insieme a lui.
Turi rimase per qualche minuto con il braccio molle, ancora infilato nel buco della grata, e con le dita della mani inermi che puntavano verso l’asfalto.
Con l’altra mano cercò in tasca il coltello, ne apprezzò la consistenza, lo rigirò nello spazio ristretto della tasca e di nuovo lo strinse nel pugno, imprimendo sul manico tutta la rabbia che gli riempiva il petto e quel senso di ingiustizia mai sperimentato. Le ginocchia tremavano e pure le caviglie, i piedi, e forse anche la terra, gli sembrava di sprofondarci dentro e di annegare in mezzo alle fogne luride.
La porta della classe si aprì all’improvviso, una donna alta e gracile guardò gli occhi profondi e scuri di Turi.
Lucia si alzò di scatto e urlò: “Ma cosa fai? Sei pazzo?”, come quella volta a casa sua.
Solo che adesso negli occhi di Turi non c’era più speranza e loro non erano soli. Qualcuno rideva, altri gridavano facendo il verso a Lucia. Turi tirò fuori dalla tasca la mano destra e la lama. Tutti a quel punto zittirono. Guardavano Lucia, poi Turi, poi la professoressa, poi la finestra, la porta e poi il coltello. Turi guardava solo Lucia che era rimasta in piedi dietro al suo banco ordinato, le sorrideva per rassicurarla ma lei si aggrappava alla sedia con le mani sudate, iniziò a piangere e a dire qualcosa di confuso che rimaneva impigliato fra la lingua e il palato.
“Lucì, ma perché piangi? Io a te non voglio fare niente, ancora non hai capito?”
Turi volse lo sguardo verso il ragazzo con la tuta.
Se ne stava rannicchiato a qualche banco di distanza, sperando di diventare invisibile.
Turi scattò, gli fu sopra, e poi intorno, dietro e davanti.
Ripeteva “Tu non devi dare fastidio a Lucì, hai capito? Che questo coltello l’ho fatto io, hai capito? Lasciala stare!”, mentre qualcuno cercava di bloccargli le braccia o di tappargli la bocca. La lama mancò tutti i colpi, poi qualcuno lo colpì in testa e il ragazzo con la tuta si divincolò e uscì dalla classe insieme ai compagni frastornati, in un brusio che diventava tempesta e si spargeva per i corridoi. Turi si ritrovò a pancia sopra, su un banco pieno di matite e pagine di libri che erano volate via dalla costola. Sul soffitto i neon lo accecavano come una luce bianca da ospedale. Nella luce Turi vide materializzarsi un punto nero grosso come un pallone da calcio. Era la faccia di Lucia. Pensò che allora forse i neon fossero la luce del paradiso e che Lucia fosse il suo angelo. Subito dopo la faccia di Lucia, Turi riconobbe il coltello. Lei lo stringeva nella mano all’altezza della faccia, proprio sopra il petto di Turi. “Cosa pensi di fare eh, Lucì? Mi vuoi colpire? Tu?”, lo sussurrava ridendo in un sibilo maligno. Lucia stava zitta, la mano tremava, ma solo un po’. Nella lama si riflettevano gli occhi veloci di Turi, le labbra screpolate che si aprivano e si chiudevano continuando a ridere. Poi uno spostamento d’aria, stoffa lacerata, forse il paradiso.