Ottavio si era sempre vantato di essere un grande lettore.
A un certo punto della sua vita però si era reso conto che leggeva sempre le stesse storie.
Stimò che avesse incontrato almeno un centinaio di volte i soliti personaggi strambi, a tratti normali, che sovente manifestavano sentimenti e elucubrazioni così simili tra loro. Capì che era giunto al capolinea quando pure con la punteggiatura cominciava ad avere problemi. Non la tollerava più. Per lui era solo una serie di simboli. Certo funzionale come lavarsi i denti, ma brutta. L’unico segno per cui nutrisse simpatia era il punto. La fine di qualcosa che è iniziata. Punto. Si ricomincia. Virgole, punto e virgole, doppi punti, trattini e caporali per i discorsi diretti, di cui faticava a comprendere le regole, rappresentavano per lui qualcosa di sospeso. Decisamente brutto da vedersi.
Quello che inchiodava Ottavio a stare sul pezzo di una vicenda che era sicuro avrebbe finito col nausearlo, erano le parole. Questa sua passione non era dovuta al fatto che, concatenandosi una dietro l’altra, le parole avrebbero formato una frase. No, era convinto che alcune fossero bellissime e potenti così com’erano, ed era stupido pensare di costruirci una storia sopra.
Così Ottavio abbandonò la narrativa per dedicarsi alla lettura di testi di bioingegneria e fisica quantistica. Per la prima volta dopo tanto tempo, tornò a meravigliarsi. Le parole di quei libri erano incomprensibili e per questo ancora più incantevoli. Appuntava i termini che, si ripeteva, avrebbe cercato sul vocabolario in un secondo momento, anche se poi non lo faceva mai. Era un’abitudine che si portava dietro dalla scuola.
Un giorno Ottavio si imbatté in quella che per i matematici è considerata la bellezza universale. Altro non erano che cinque costanti assemblate in un’equazione:
eiπ + 1 = 0.
Dentro c’era tutto. L’algebra con il suo numero immaginario i. La geometria con il suo numero trascendete π. L’aritmetica con i suoi elementi neutri 1 e 0 e l’analisi con la sua costante matematica e. Scrisse l’equazione. Osservandola, sentì forte la necessità di contemplare un po’ di bellezza. Si disse che l’aveva meritato dopotutto e che, con i risparmi di una vita, avrebbe potuto benissimo intraprendere un lungo viaggio per rivedere l’aurora boreale e l’oceano. O per sollevare la testa e guardare per la prima volta le vette del Kilimangiaro o la fioritura dei ciliegi in Giappone.
Non c’è più tempo, si ammonì.
Per via dell’età e del mio cancro, provò a giustificarsi.
Ma l’idea di avere un po’ di bellezza a portata di mano cominciò a tormentarlo. Il problema era come e dove procurarsi la bellezza. Gli vennero in mente La notte stellata di Van Gogh, un Rembrandt, la Venere di Botticelli e una delle solitudini di Hopper, ma per quanto stupefacenti fossero quelle opere non erano cose che si potevano prendere e portare via. Ladro non era mai stato e non avrebbe potuto diventarlo dall’oggi al domani: non era bravo in queste cose.
Mi serve una bellezza accessibile e di facile rinvenimento. Una bellezza puttana: si sorprese a ridere. Poi smise e convenne con se stesso che era sulla buona strada: il posto dove la bellezza avrebbe potuto trovarsi e dovuto stare, era un oggetto sacro al mondo dei pittori. Riempì, così, il suo studio di tele di diverse dimensioni. A lungo, però, rimasero bianche, mute e vuote.
Sono belle così, si disse una sera contemplandole.
Forse la bellezza ha a che fare anche con l’assenza, provò a convincersi.
E, in poco tempo, vuotò lo studio, ormai in disuso, di sua moglie. Ammucchiò documenti, cartelle, quadri e porta ritratti nel corridoio. Non rimase che la struttura di una libreria, un tavolo e un mobiletto al quale aveva tolto pure le ante. Eliminò tende, sedia, due poltroncine e tante altre vecchie chincaglierie. Quella stanza, mezza spoglia, a Ottavio parve bellissima.
Sento che mi sfugge ancora qualcosa, si intristì.
Forse la bellezza ha a che fare anche con l’abbondanza, si disse soddisfatto. E trasferì gli oggetti, che un tempo erano stati di sua moglie, nel suo studio.
Ci siamo quasi, si rincuorò Ottavio.
Cosa potrei fare con voi?, domandò alle tele, il giorno dopo.
Non so dipingere. Non so scrivere cose belle e anche se avessi saputo farlo, quale storia avrei potuto raccontare?, chiese più a se stesso questa volta.
Forse la bellezza ha a che fare anche con quello che io reputo bello. Che ovvietà, si disse quasi disgustato.
Rettifico: forse la bellezza ha a che fare anche con l’ovvietà, sentenziò e andò ad aprire un cassetto della sua scrivania. Tirò fuori due quaderni con le pagine ingiallite. Prese un calamaio, intinse la punta nell’inchiostro, e scrisse: alabastro. Era stata la prima parola che, a otto anni, aveva annotato nei suoi diari. Conosceva molto bene il suo reale significato, ma volle aggiungere quello che a lui era sempre sembrato: un uccello dalle grandi ali dorate.
Seppe, d’un tratto, cosa fare: sillabare sulle tele le parole registrate nel corso degli anni e aggiungere una nuova accezione: la sua. Segnò se-mi-a-ne-coi-ca: cono geometrico in cui è possibile vedere contemporaneamente il chiaro e lo scuro. Pa-re-doi-lia: donna greca dai sacri principi familiari. Bu-stro-fe-di-co: tight per uomo dal rigido contegno. Fluo-re-sceb-be: passato remoto di fluorescere, terza persona singolare o altrimenti detta come ognuno ha la sua stella nel cielo che brilla. Era felice di tutte quelle nuove parole foriere, ora, di una propria storia. Su una tela gigante volle, infine, scrivere, senza punteggiatura alcuna, l’ultima diagnosi ricevuta nemmeno un mese prima:
In seguito all’indagine effettuata con PET-CT sono state localizzate cellule tumorali attive costituenti un adenocarcinoma su entrambi i tessuti polmonari. Il tumore ha metastatizzato interessando il 60% del fegato.
Questi paroloni così belli dicevano una cosa altrettanto bella: morte certa.
Forse la bellezza ha a che fare anche con una specie di sottrazione di ciò che è brutto dal mondo, si disse concludendo quella frase, e si immaginò la morte che avanzava, verso di lui, barcollando, ubriaca, su un paio di décolléte rosse. Era priva di falce e indossava un vestito nero che fasciava le sue curve tutt’altro che longilinee. Ci mise poco a capire che era troppo reale per essere la sua immaginazione. Si affrettò a scrivere sull’ultima piccola tela un lascito per i suoi eredi:
Forse la bellezza ha a che fare con queste mie stanze e con questa mia strampalata storia, abbiatene cura.