La macchina era parcheggiata di fronte al lago. Fuori c’era vento e girata la chiave si sarebbe accesa la spia con il fiocco di neve. Si tolse i guanti, li appoggiò sulle gambe. Vuoi che l’apra io? Stai zitta.
Prese dalla borsa la busta, strappò lentamente il taglio di chiusura. Hai sempre avuto le mani così piccole? Silenzio. Che cosa dice? Un attimo. Scusa. Appoggiò il referto sul volante e prese il telefono dalla tasca del cappotto. Compose il numero che ormai conosceva a memoria. Il volto era quello di prima però a ogni parola si faceva più lontano. Ho letto che non guarisco. Silenzio. Il lago d’inverno fa schifo. Torniamo a casa.
Continuò a svegliarsi presto. Alle sei era già seduta al tavolo della sala da pranzo. Prendeva le prime medicine, guardava il sole sorgere. Scaldava l’acqua per il tè e lo beveva piano. Sentiva i sorsi scorrerle dentro e pesarle nello stomaco come sassi. Si impegnava a pulire ogni giorno qualcosa. I vetri di una finestra, il pavimento di una stanza, la polvere sulle mensole della sala da pranzo. Camminava lentamente, i piedi le facevano male. Sento gli spilli, diceva. Poi si sdraiava e passava nel letto molte ore per riprendersi dalla fatica.
Diventò sempre più sottile, tanto che arrivò ad assomigliare a un topolino. Non viene più nessuno a trovarmi, sono sempre qui da sola, bisbigliava nel letto. E io non mi offendevo. Prese l’abitudine di ascoltare la musica nella penombra della stanza. Teneva gli occhi chiusi affondata nelle coperte. Pronunciava male i nomi ma imparava con precisione la successione delle note. Ravel. Oiseaux tristes, La vallée des cloches, Une barque sur l’océan. Quando ascoltò per la prima volta Pavane pour une infante défunte sentì un formicolio alle dita e un calore le pesò sul palmo come se qualcuno le stesse toccando la mano sinistra. Le venne un brivido alla schiena. Nascose il braccio sotto al cuscino e il calore scomparve. Di che cosa hai paura? Si alzò per far cadere di nuovo la puntina del giradischi sul solco che introduceva il brano. Tornò nel letto, chiuse gli occhi. La mano aperta sulla fodera. Non accadde nulla.
Il giorno dopo era seduta al tavolo della cucina, i piedi immersi nella bacinella d’acqua calda. Sentì alla gamba una pressione leggera, dolcissima, continua. Le venne da arrossire. Il calore si mosse accarezzandole la nuca e la guancia destra. Hai la pelle fragile come la carta. Divenne presto una presenza della casa. Si faceva sentire sempre più spesso e arrivò ad allargarsi fino a diventare un abbraccio.
Una sera, prima di addormentarsi, il topolino rimise il disco di Ravel. Quando cominciò la Pavane ebbe l’impressione che un nuovo strumento fosse spuntato e stesse cercando di accordarsi con gli altri, ma senza riuscirci. Il suono era tenue e confuso al primo ascolto. Sempre più nitido in quelli successivi. Era una voce femminile, alta e intensa allo stesso tempo. Parlava veloce, come se non si desse il tempo per prendere fiato. Anche il topolino tratteneva il suo. E ascoltava. La voce raccontava i suoi ricordi. Di quella volta in cui iniziò a piovere fortissimo e lei, ancora bambina, si nascose sotto a un camion con un suo compagno di classe. Aspettarono che smettesse e prima di andarsene correndo lui le diede un bacio sulla bocca. Di quando una sera in biblioteca scoprì il libro di racconti di Dostoevskij e rimase sveglia a leggerlo tutta la notte. Dell’università e di un pomeriggio al parco con i compagni di corso dopo le lezioni. Bevvero tanto e programmarono delle vacanze che non avrebbero mai fatto. Del giorno in cui morì suo padre e lei prese un treno di notte per poterlo vedere l’ultima volta. O ancora di quel giorno in cui, sedendosi al tavolo di un bar, un’estate, vide per la prima volta il volto dell’uomo con cui avrebbe vissuto per tanti anni.
La voce parlava e il topolino l’ascoltava grata. Ogni giorno, sdraiandosi a letto e facendo ripartire il disco, riviveva il passato, che la voce raccontava come se fosse il suo. Il calore la prendeva per mano o le si accoccolava a un fianco. Di chi era quella voce? Era bella e sapeva tutto di lei. Il topolino se ne stava innamorando. Ma accadde che un giorno né la voce né il calore si fecero trovare e così anche quelli successivi. La casa tornò vuota e il topolino iniziò ad alzarsi sempre più tardi dal letto e a non curare la casa che divenne presto polverosa e disordinata. All’ennesimo ascolto a vuoto della Pavane, sfilò il disco dal piatto e lo spaccò in due spingendo un lato con un piede e l’altro con la mano.
Fuori dalla casa l’inverno sembrava infinito. Il topolino non apriva mai le finestre perché il vento avrebbe potuto graffiarle il volto con i suoi artigli di gatto affamato. Ma una notte sentì bussare al vetro della cucina. Un tintinnio veloce, alternato dal frusciare dell’aria. Forse è un ramo piegato, o un uccellino che cerca soccorso. Si alzò lentamente, indossò le ciabatte mugugnando un poco per il dolore e prese dalla sedia la sua sciarpa di lana. Raggiunse il rumore, ma non vide nulla oltre la finestra, se non il buio in cui il vento poteva muoversi indisturbato. Il tintinnio non si fermava. Di che cosa hai paura? Coprì il collo e il volto con la sciarpa e aprì piano la finestra, facendosi velare da uno spiraglio di gelo. E da una voce che chiamava il suo nome. Giulia, Giulia. Trasalì. Era la sua voce, non era morta con il disco rotto. E si rivolgeva a lei, per la prima volta. Vieni a trovarmi, non vuoi vedermi? Il topolino richiuse la finestra, tornò in camera da letto e indossò le calze pesanti, un maglione e il cappotto. Quando uscì in strada il vento assaltò il suo corpo minuto da tutte le parti. La voce raccontava di quella sera in cui con sua sorella sentirono un miagolio nel giardino e trovarono un cucciolo di gatto dimenticato dalla mamma. Lo portarono dal veterinario che lo curò e decisero di tenerlo a casa con loro. Mentre parlava la voce sembrava allontanarsi e il topolino non riusciva a camminare così veloce. Prese la macchina e abbassò il finestrino. Ora la voce ricordava del pomeriggio in cui il topolino prese coraggio e avvicinandosi alla ragazza che fumava sulla terrazza del liceo le disse che era bella. Lei l’abbracciò e stettero strette l’una nell’altra per tutto il tempo dell’intervallo. Aveva lasciato la città, la strada provinciale era buia, intervallata dalle aureole di luce dei lampioni. La voce la condusse fino al lago. Ci sei quasi. Il topolino parcheggiò in uno dei posteggi che affiancavano la riva. Mancava poco all’alba e ancora il paesaggio poteva nascondersi nell’oscurità. Scese dall’auto, mentre io non mi mossi. La vidi avvicinarsi al molo, dove l’acqua sciabordava per il vento contro le barche ormeggiate. Si aggrappò al corrimano delle scalette e immerse i piedi nell’acqua. Deve essere gelida. Ma lei sentiva il calore avvolgerle i piedi e le caviglie. Le ginocchia, l’inguine, il collo, l’ultimo respiro.
Presto il sole assorbì la notte e il vento. L’acqua del lago tornò calma e i placidi rumori del mattino riempirono l’aria. Io mi intrufolai tra i grumi dei tappetini, nelle cuciture dei sedili. Divenni la polverina vorticosa che si vede negli spazi chiusi solo quando i raggi del sole colpiscono diretti come le lampade calate sui palcoscenici.