Ti alzerai spingendo il tavolo in avanti e la tua sedia cadrà sbattendo forte.
Guarderò il mio piatto, il brodo rimasto sul fondo farà una piccola onda sfiorando il bordo senza fuoriuscire. La bottiglia di vino non avrà il tappo e farà un tonfo sordo sulla tovaglia mentre il rosso scivolerà sul pavimento; lo fisserai per un momento e ti disseterà come se ti scendesse in gola, ma quello che ti disseterà davvero, sarà l’immagine di me che ripulisco. In quel momento mi accorgerò di avere sete. Tirerò su la bottiglia per il collo e del vino finirà sulla mia mano, la cosa non mi darà più fastidio della chiazza sul pavimento bianco; pulirò la mano passandola sulla tovaglia, bianca anche quella. Non raccoglierai la sedia caduta, spostandoti ci sbatterai contro e le darai un calcio per allontanarla.
Urlerai qualcosa, non mi girerò a guardarti, sposterò la bottiglia di vino su un ripiano, metterò nel lavello i piatti, le posate e i bicchieri, tirerò i quattro angoli della tovaglia verso il centro del tavolo per farne un fagotto di molliche, croste di pane e macchie di vino. Tu mi darai le spalle, aprirai il pensile della colazione per prendere la moka, riempirai d’acqua la caldaia e inserirai il filtro di metallo controllando che i buchi si bagnino appena; ci farai stare quattro cucchiaini di caffè, senza ammassarli, e accompagnerai il bordo tondo con il pollice e l’indice in modo che la polvere non si sprechi. Metterò la tovaglia in un sacchetto di plastica, non avrò voglia di provare a smacchiarla, né il giorno dopo, né un altro; la getterò con tutte le briciole. E non vorrò alzare la sedia, né in quel momento, né il giorno dopo, né un altro. Andrò sul balcone, accanto al lavandino troverò il secchio, ci verserò un tappo di detersivo e uno di candeggina e aggiungerò acqua fino a metà. Prenderò anche lo straccio e rientrando in cucina guarderò la sedia che sarà ancora per terra; sentirò il caffè salire nella macchinetta e dall’odore mi sembrerà bruciato. Strapperò qualche foglio di carta assorbente per togliere il grosso del vino da terra, tu mi guarderai poggiato a un mobile e comincerai a bere il caffè da una tazzina che avrai preso dal colapiatti. Non ti dirò di tirare su la sedia, non mi dirai di tirare su la sedia. Immergerò lo straccio nel secchio, lo strizzerò poco nel cestello agganciato al bordo per lasciare che l’acqua scenda copiosa sulla macchia di vino; comincerò a lavare con movimenti larghi e perfetti che formeranno per terra strisce orizzontali rosa. Immergerò ancora lo straccio nell’acqua che si colorerà come il pavimento, la schiuma tenderà a sparire incorporando lo sporco. Strizzerò via via lo straccio nel cestello e passandolo sul pavimento continuerò a dondolare da una parte all’altra allargando sempre più i movimenti; raggiungerò i tuoi piedi, non li toccherò, farò lo stesso con la sedia, ne seguirò con cura il contorno senza sfiorarla. Il pavimento tornerà bianco e luccicherà sotto il neon. La sedia non sarà mai più la stessa, non sarà mai più solo una sedia, d’improvviso lo sapremo entrambi senza stupirci. Finirai il caffè nella tazzina tirando su il gomito e piegando all’indietro la testa; dirai che stai per andartene perché se resterai ancora impazzirai. Passerò lo straccio un’ultima volta, anche dove prima c’erano i tuoi piedi, tu intanto sarai già uscito dalla cucina e la sedia sarà sempre per terra. Tirerò su il secchio e tornerò sul balcone per svuotarlo nel lavandino; una volta lì non lo farò, lo alzerò invece a fatica con due mani, una sul fondo, una sul bordo, lo porterò alla bocca, la plastica a contatto con le labbra sarà ruvida, usurata dall’acqua, sentirò la screpolatura passandoci anche la lingua. Comincerò a bere, l’odore si unirà esatto al sapore e insieme mi stordiranno; mi affretterò, il secchio mi sembrerà più pesante, l’acqua ondeggerà da una parte all’altra ogni volta che proverò ad alzarlo di più; farò dei sorsi lunghi, due, tre, cinque volte, non ci saranno tovaglie macchiate di vino e contorni di piedi che si spostano, ma un secchio, uno straccio tinto di rosa, una sedia.