Livio macera il tempo raccontandosi trame che sono collage di realtà e immaginazione. Ogni tanto registra frasi su nastro magnetico, unite da filamenti intrigati confinati a dimora nella sua testa: col risultato che, alla luce del sole, i discorsi sembrano senza un padre e una madre certi.
L’apparecchio è quello che azionava durante le sedute con i suoi pazienti, ha la cassetta a due bobine che ormai nessuno usa più. Non si fida degli apparecchi digitali: crede alla radice delle parole che svela se dietro si nasconde una bugia (la radice di digitale è dito, eppure indica un mondo smisurato che non si può toccare). A fine giornata si riascolta: in genere si trova un attore mediocre con un copione insipido e allora tira indietro il nastro, ci ripassa sopra per addomesticare toni e parole, per togliere le grinze alla voce. Finisce col non riconoscersi, così cancella tutto e si assopisce, esausto e vuoto.
Nella clinica è l’ora in cui degli anziani ospiti si sente solo il russare che inciampa in un punto e riprende più sonoro. Sullo sfondo, il pulsare degli strumenti medici e lo sfiato dei respiratori cadenzano lo scorrere inutile del tempo.
Stasera Livio è ancora sveglio, schiarisce la gola con un rumore di ghiaia pestata, preme il tasto Rec.
Quando Astrid arriverà, ci butterà tutti in un unico calderone. Sarà una centrifuga di gambe e braccia che si confonderanno, un’apocalisse sconcia che livellerà, indifferente al valore di uno e alla pochezza di un altro. In tv stanno passando da giorni la notizia, la danno in avvicinamento ma dicono che ha una traiettoria ballerina, che non si sa se alla fine ci toccherà. E a me viene in mente una valchiria bionda su un tacco dodici, che ancheggia volubile, ammicca e prosegue oltre, nel buio dell’universo. O invece, chissà, ci pesterà a terra come cicche. Non lo so se sia vero che nel momento ‘x’ ti scorra davanti agli occhi tutta la vita passata. Orrori ed errori compresi. Mi ha sempre fatto pensare alle operazioni eseguite dalle calcolatrici col rotolo di carta, che sputano nero su bianco numeri su numeri e poi fanno il totale. Il rischio è che venga col segno meno davanti. Tuttavia, tutto, TUTTO, è meglio di questo.
Sono sei mesi, una settimana e tre giorni che Livio si trova in quella clinica per ricchi giunti al capolinea, senza ancora essersi meritato un’esistenza che non lo faccia vergognare. Giace quasi immobile con la parte sinistra andata da un pezzo: il letto, con le spallette di contenimento, è diventato una trincea dove l’agonia si consuma al rallentatore.
Suona il campanello che gli hanno fissato al dito indice col nastro telato. Una voce da un’altra stanza urla: «Ancora lei! Arrivo!» È dell’infermiera che fa le notti, è l’unica senza figli piccoli. Ha una voglia bianca sul ciuffo che pettina all’indietro, a spartirle in due il cranio. Sta finendo il giro serale, si vede che ha fretta da come passa veloci i palmi sulle lenzuola, per stendere le pieghe della noia di ventiquattro ore su ventiquattro. Livio ha notato che, quando le detta un comando, lei guarda da un’altra parte, deglutisce ed esegue. Si è accorto che s’imbarazza a sentire battezzare le comuni funzioni vitali con nomi grevi o spicci, e lui ha iniziato a farlo apposta. Lo faceva anche con i pazienti, li provocava calcando sui loro punti deboli, per costringerli a rivelare quel che di vero tenevano per sé.
La donna si affaccia nello spazio lasciato dalla porta socchiusa. «Sono quasi le nove. Deve dormire».
«Ho bisogno che mi cambi».
«L’ho fatto poco fa».
«Puzzo come una latrina».
L’infermiera porta lo sguardo a terra, deglutisce, dice: «Vado a prendere il cambio».
Livio è convinto che lei lo trovi un essere ripugnante: lo tocca in punta di dita, protetta da una barriera di lattice sottile, come se temesse che la malattia o le macchie marroni della senescenza si possano trasmettere.
E dire che nella tariffa salata della retta potrebbe rientrarci anche un po’ di affetto di maniera, per dio! Come si fa a non provare compassione per uno che per defecare ha un foruncolo di intestino che spunta da una stomia nell’addome? Se non ti toccano le interiora di un uomo messe in bella mostra, significa che nulla ti toccherà.
La donna entra nella stanza e accende il neon installato al centro del soffitto. Livio passa l’indice sui tasti, conta uno, due, preme il rewind, e dopo lo stop. Non vorrebbe, ma il tremore della mano gli fa premere il play E dire che nella tar—, impreca.
«Basta registrare. Sia buono, la notte è lunga e io sono già stanca. Perché è così nervoso stasera?»
«Astrid. Sta arrivando».
«Ancora con questa sciocchezza. Dorma».
L’infermiera raccoglie da terra la sacca trasparente opaca della pipì, la porta in alto a favore di luce, come fosse un trofeo; mette gli occhiali per vedere il numero accanto alla tacca.
«Oggi trecento, è poca, deve farne di più» dice, e sorride, forse per fare la simpatica ma lui la odia tanto che vorrebbe versargliela addosso con l’unica mano che gli funziona ancora.
«Tu riesci a pisciare a comando? Mi sembra di averci il fuoco, lì».
La donna scuote la testa, gli scopre l’addome; quando inizia a muovere le mani distoglie lo sguardo: i gesti diventano esecuzione di una sequenza ripetuta a memoria. Toglie il sacchetto di tessuto impermeabile color carne (Livio trova patetico, addirittura offensivo, quel tentativo di mimesi; la prima volta che ne vide uno, si mise a ridere, per la rabbia), lo appoggia in fretta sul pavimento come per sbarazzarsi del ribrezzo.
«Stai attenta, non vedi che sta per scoppiare?»
Certe volte il sacchetto si rompe, oppure l’adesivo si stacca dalla pelle e Livio si sporca, come se non fosse uno psichiatra emerito di settant’anni ma un pozzo nero al colmo. Ogni volta che succede, lui si maledice mentre l’infermiera in turno lo lava, montando una smorfia agli angoli della bocca.
La donna scuote la testa, mentre finisce di sistemare il sacchetto pulito. Spruzza in aria e in direzione dell’uomo un deodorante che tiene nella tasca del camice. All’inizio, quando lo faceva, Livio la cacciava dalla stanza, poi ha fatto l’abitudine anche a quello.
«Va bene così? Adesso però dorma». La donna si volta e si dirige verso la porta.
«Quanta fretta».
«Agli altri chi ci pensa? Dovrebbe far venire un familiare».
«La famiglia è una tomba».
«Le avrebbe fatto comodo, però».
«Tutte cazzate. Come si fa ad avere voglia di tornare a casa e trovarci sempre la stessa persona?»
A quelli che facevano gli amici, quando ancora contava qualcosa, Livio confidava che col suo lavoro aveva conosciuto miserie umane talmente sgradevoli da non volersene accollare neanche una. Di solito ne disquisiva durante le serate organizzate al Rotary Club, seduto comodo davanti a una scacchiera (gli piaceva giocare coi neri), e a un bicchiere di grappa invecchiata, mentre caricava la pipa col tabacco Dunhill.
«Ti posso pagare, se resti» dice all’infermiera.
Nelle stesse occasioni sosteneva che alle persone non piace che si veda che hanno il codice a barre con su scritto prezzo e provenienza. Sanno di averlo ma lo seppelliscono sotto strati di buone maniere e di parole sante, guai a puntarci dritti i riflettori. Se lo fai, si schermano, si mettono in ombra.
«Livio, non è mica questione di soldi!»
«Sicura?»
«Non mi offenda!»
Ne fanno una questione di candore ingiustamente sporcato, si ribellano, si indignano. A un certo punto, però, cedono.
«Va bene, finisco il giro e torno da lei».
«Devi fare in fretta».
«Ho capito».
«Lo sapevo che sei una brava donna» dice Livio. Conta uno, due, tre tasti e registra.
Sono tutti d’un pezzo con una crepa sottile proprio nel mezzo. Ed è lì che si dividono, senza doverli troppo forzare. Basta solo stabilire il prezzo, per convincerli. Certo: bisogna saperlo fare.
Livio ha sempre creduto nel potere persuasivo della sua mente. Ed è stata una disfatta doversi arrendere all’evidenza che, no, non ce la fa a piegare la morte al suo volere. Prima della malattia, non credeva in un dio, finché si è convinto che devono esserci ordini dall’alto a tenerlo saldo nell’aldiquà (se non ci fossero, sarebbe bastata la voglia che ha di morire, a farlo morire).
Solo la fede degli stolti barcolla sotto i colpi della malattia. Quando uno non piscia più da solo, ed è costretto a defecare in un sacchetto, vuol dire che la messa è finita. Amen. Invece il DIVINO ti tiene in vita, come fosse un favore che ti fa. Non la chiamerei misericordia. Accanimento, piuttosto.
La porta si spalanca dopo due colpi leggeri e brevi sul legno.
«Livio, è ancora sveglio?» chiede l’infermiera. Gli mette il termometro sotto il braccio steso inerte lungo il fianco.
«Ho fatto il morto per tutto il pomeriggio. Come faccio a dormire, ora…»
«Dovrebbe smettere di avere sempre la morte in bocca. Lei è vivo».
«Mio malgrado».
«Dite tutti così, ma poi nessuno vuol saperne di morire».
«Tanto ci penserà Astrid».
La donna si mette a ridere.
«Penserà anche ai tuoi figli e ai tuoi nipoti» dice Livio, con la voce più ferma. L’infermiera continua a guardarlo e la risata si fa grassa tanto da riempire ogni spazio della camera.
«Macché, Astrid!» Scuote la testa, toglie il termometro, annota il dato sulla cartella ai piedi del letto.
«Voi stolti non credete a niente» dice Livio.
«Astrid ha deviato la traiettoria. Lo hanno appena detto in tv. Può smettere di aspettarla».
Livio rimane in silenzio, sente scorrere un rivolo tiepido dagli angoli esterni degli occhi fin dentro gli orecchi, a ovattare ogni suono.
«Tempo fa mi avevi promesso altre fiale» dice, ma la voce esce in uno sfiato.
«Ancora con questa storia?» La donna abbassa la voce: «Lei mi vuol mettere nei guai».
«Me le avevi promesse».
«Cosa crede di poterci fare…» dice l’infermiera, passando un’occhiata rapida lungo il corpo immobile di lui.
«Non piscio neanche più, da solo…»
«Perché insiste, allora?»
«Dici sempre che sei a corto di soldi. Perché non lo vuoi fare?»
«Ma io non ne so niente, chiaro?»
«È il nostro segreto da nulla».
«Veda di rimanere sveglio finché non torno».