Avevano deciso di partire non oltre le dieci del mattino. Quando raggiunsero la riva del fiume, il sole pulsava in verticale sopra le loro teste. Era ormai mezzogiorno. Dal gruppo emanava un’infelicità così perfetta da sembrare finta. E in un certo senso, lo era.
La zia, annoiata, fumava. I bambini frignavano. Il padre, in lontananza, sbuffava.
“Il formaggio andrà a male con tutto questo caldo”, disse la madre sistemandosi i capelli.
Con le mani piccole e svelte infilò le ceste da picnic sotto al tavolo. Il legno, sulla superficie, era scheggiato. L’umidità aveva rosicato una delle gambe rendendola instabile. Proseguendo lungo il sentiero che affiancava la riva, avrebbero trovato tavoli più solidi, disse la zia. C’era solo da camminare qualche minuto in più. La madre scosse il capo. Con il dorso della mano si asciugò il sudore in fronte.
“Sei stata brava a non fare figli”, disse, mentre i bambini cominciavano a tirarle l’orlo della gonna, impazienti di mangiare. La zia alzò le spalle, frugò nella borsa per recuperare un pacchetto di sigarette; ne estrasse una. Tenendola spenta fra le dita si avviò verso l’acqua. Fissò a lungo, incuriosita, la superficie. Per un attimo le era parso di sentire qualcosa, come un riso soffocato. Il fiume scorreva rapido e tumultuoso, sollevando un vago puzzo di pesce. In paese dicevano che l’acqua non raggiungeva una tale altezza da oltre dieci anni. Per settimane non aveva fatto altro che piovere. Poi era tornato il sole, e sua sorella le aveva chiesto di unirsi al picnic. In verità non era stata la sorella a invitarla, ma suo cognato. A volte le dava un pizzicotto sulla guancia. “Sei la mia unica figlia femmina”, diceva. Lui arrivò per ultimo, portando le borse più pesanti, quelle con le bottiglie d’acqua e le creme solari; sotto al braccio teneva un vecchio ombrellone da spiaggia. Il tavolo riceveva ombra dalle betulle, così l’ombrellone si dimostrò superfluo. “Perfettamente inutile”, scandì bene la moglie. Eppure era stata lei a insistere tanto per portarlo, disse il marito. O lo pensò soltanto. I bambini furono messi a tacere con metà panino al prosciutto. Accovacciati tra i cespugli, sfilarono cautamente la morbida fetta e in un morso la fecero sparire. Senza farsi notare dalla madre, lasciarono i lati del panino vuoto in un angolo del tavolo.
Nonostante l’ombra, il sole era un’arsura che dava male alla testa. Tutti pensarono che se avesse fatto un po’ meno caldo la giornata sarebbe stata perfetta. Tutti annuirono del proprio pensiero, soddisfatti. Il cielo era una lindura azzurra; la riva era stranamente poco affollata. I bambini avevano ripreso a piagnucolare. Immersi nell’acqua fino ai polpacci, non si muovevano di un passo: i sassi del fondale facevano male ai piedi. La zia fumava, pensierosa, tenendo i gomiti sul tavolo. La madre pestava con zelo le formiche che si erano radunate intorno alle briciole di pane. Non pestava prima di aver localizzato un punto in cui fosse stato possibile schiacciarne un discreto numero in un colpo solo. Aveva imparato che con gli insetti ci voleva metodo: a sfidarli emotivamente non si risolveva niente; al contrario, probabilmente sarebbero aumentati. Sarebbero tornati a perseguitarla persino di notte, nei suoi incubi. No, un incubo andava estirpato alla radice; pensava mentre uccideva metodicamente le formiche. Vide, in un delizioso sogno a occhi aperti, la dissoluzione totale degli insetti.
“Perché esistono?”, domandava al marito, senza alzare gli occhi da terra.
Lui sbuffò, ancora. Non valeva la pena di provare a rispondere, pensò. O disse. La moglie alzò lo sguardo, gli occhi stretti intorno alla pupilla nera. Di colpo li spalancò, e portandosi la mano davanti alla bocca tentò di soffocare un grido di orrore. Lasciò cadere le ginocchia sulla panca a lato del tavolo; il volto nascosto tra le mani e le ciocche lisce dei capelli, scoppiò in un pianto infantile.
“È successo di nuovo”, disse singhiozzando.
Nel momento in cui aveva alzato lo sguardo verso il marito, aveva individuato una vespa: ronzava a pochi centimetri dal viso di lui. Sapeva che la vespa era poi volata altrove, indifferente ai loro corpi. Ma la sua mente si era ostinata a vedere altro. Aveva visto la bestia posarsi sul labbro inferiore del marito; la lingua del marito uscire a intiepidire la bocca; la lingua rientrare trascinando dentro la vespa. Che naturalmente aveva punto la gola del marito. E lui si era fatto bluastro. Oppure pallido come un cadavere? La moglie non ricordava più. L’immaginazione sì, ricordava molto bene: si divertiva a portare i fatti ben oltre la realtà. “Ben oltre”, sottolineò la moglie, ancora singhiozzando.
Il marito guardò a terra. Sforzandosi di assumere un’aria benevola, si sollevò dalla sedia e girò intorno al tavolo fino a raggiungere le spalle della moglie. Le clavicole sporgevano, sotto alla seta del vestito, come ossa di ali. Cominciò a massaggiarle la nuca. Com’era delicata la nuca di sua moglie, gli ricordava sempre la tenera peluria dei gatti appena nati. Suo nonno gli aveva insegnato a ucciderli, quando erano troppi. Andavano sollevati dietro al collo, uno alla volta; poi, bisognava stringere con uno scatto deciso, insistendo fino a quando il corpo iniziava a pendere esangue sotto la mano.
La moglie si calmò. Senza dire una parola, recuperò le ceste sotto al tavolo e si mise a farcire i panini del pranzo. Il marito tornò sulla sua sedia. I bambini, nei pressi della riva, non sapevano più cosa fare: l’acqua era troppo fredda per bagnarsi interamente. La zia lanciò un altro mozzicone in terra; di nuovo andò verso il fiume, stando molto attenta a non avvicinarsi troppo ai nipoti. Era stata brava a non fare figli, pensò. D’istinto guardò la sorella. Rigida e goffa, alzava il dito verso i bambini in un tentativo di rimprovero che a vedersi faceva una gran pena. L’autorità non era mai stata nelle sue corde: lo sapeva. Per questo si impegnava a fingere. Ma non era capace nemmeno di fingere. Il dito stesso sembrava suggerirglielo. “Lasciami giù”, bisbigliava, “Che pena”. Doveva far pena anche ai bambini, a giudicare dall’espressione che avevano nello sforzo di eludere lo sguardo della madre. Lei se ne risentì. “Guardatemi”, ripeteva. I bambini esitavano. La zia sorrise, sinceramente intenerita. Le pareva nobile quella ritrosia, come se voltandosi volessero risparmiare ulteriore imbarazzo alla recita della madre. Dopodiché, abbassò gli occhi. Sta’ zitta, pensò rivolta a se stessa. Il ruolo di zia non era anche più patetico di quello di madre? Quantomeno lei era ancora una bella donna. Di nuovo scrutò la sorella. Come le cadevano profonde, ormai, le rughe verticali agli angoli della bocca. Il seno era un rilievo senza forma. La magrezza di una volta – filiforme, con la grazia angelica di una ballerina – aveva lasciato il posto a un profilo spigoloso. Non era proprio l’immagine della madre sofferente?, si domandò la zia, e abbassando lo sguardo osservò a lungo il proprio ventre. Tra le due, lei era sempre stata la più formosa. Ora, questa formosità tornava finalmente utile. Le dava la beltà sensuosa di una statua antica. Dopo il sesso, gli uomini si posavano sul suo ventre morbido; chiudendo gli occhi, pieni di estasi, riposavano. Qualcuno di loro le stringeva il seno, sempre gonfio e sodo nonostante l’età. Stesa nel buio, lei sospirava, feconda come la madre terra. Ultimamente, gli uomini non restavano più a dormire. Le prime volte se n’era stupita, poi aveva accettato che a quarant’anni le priorità cambiassero. Molti degli uomini con cui si vedeva erano sposati. Così lei restava sola, sempre più spesso, con la carne ancora nel pieno della gioia. Sola, con il buio. Si sforzava di accogliere la notte come se fosse un altro dei suoi amanti. Non era la stessa cosa. Con candore, giungeva la notte. Ma presto cominciava ad appesantirsi, fino a quando sembrava impossibile levarsela di dosso, e il petto doleva come soffocato da un mantello di piombo.
Tutti erano serenamente tristi e annoiati. Soltanto l’acqua viveva. Di fronte a loro, il letto del fiume disegnava una lieve curva, così che la superficie sembrava quasi un sorriso. Oh, ma non era un sorriso crudele. Forse soltanto un po’ ironico. E vagamente offeso. Perché da molte ore l’acqua osservava la famiglia, la comica complessità dei suoi ruoli. Non era poi tanto difficile essere felici, se ci si prendeva il tempo di osservare l’acqua con attenzione. Era lì per aiutarli, generosa persino nel suo grande giorno. Voleva ricordare alla famiglia che non è mai troppo tardi per essere. Essere? Ma come, e che cosa? Molto più difficile a dirsi che a farsi: come l’acqua, non c’era che da lasciarsi andare e godere di sé, senza mai fine. Che per un umano si traduceva, più o meno, nel fare sempre quel che si voleva. O significava altro? Quanta presunzione nelle premure dell’acqua: non sapeva che gli uomini hanno altre esigenze? No, l’acqua non sapeva. E sorrideva, ingenua e fiera, nel suo grande giorno. La famiglia era troppo impegnata a essere infelice per accorgersene. Solo uno dei bambini sembrò improvvisamente capire. Nei pressi del fiume, aveva intuito il sorriso dell’acqua. Se fosse stato capace di pensarlo, forse avrebbe detto: stiamo sbagliando tutto. Ma non era in grado di pensarlo, quindi non disse niente.
Il testimone descrisse meticolosamente tutto ciò che aveva avuto modo di vedere. Con gli occhi ancora scossi rivolti al pavimento, parlando si massaggiava il cranio quasi calvo. Riferì anche i dettagli che riguardavano la vegetazione ai lati del fiume, lo stormo di uccelli che si era sollevato in un unico grido isterico poco prima che la diga cedesse. L’uomo stava raccogliendo mazzi di ortiche sulla collina, appena sopra casa sua. Da quel punto, la vista sul corso d’acqua era molto ampia. Aveva udito un boato spaventoso, come di tanti scrosci insieme. Era corso al limite della collina, per guardare giù. Il fiume era diventato un’esplosione di fango senza più argini. Per qualche minuto, l’uomo era rimasto immobile a fissare quel demonio. Impotente, aveva seguito il passaggio di cinque cadaveri trascinati via dalla corrente. Era sufficientemente vicino da poterne distinguere i volti. Era pronto a giurare che sorridessero.