Indossa un cappello con la spaccozza. Un metro e cinquanta, circa. Dove dovrebbero esserci faccia, guance, occhi, c’è solo un teschio.
Ci sono due fori: vermetti lunghi strisciando entrano ed escono dal cranio. Ciao nonno, dico. Non so se ci sia pelle sul resto del corpo, se la macchina ha divorato tutto o solo il viso – la parte che ci permette di amare davvero qualcuno. Indossa un lungo giubbotto, nero.
Su un albero uno scoiattolo scappa da qualcosa. Il cielo è di un violaceo vomitevole. Ho un leggero dolore al piede destro e sento un sottile ronzio. Il vecchio si toglie il cappello e lo porta giù, in una specie di saluto, per poi rimetterselo. Il marciapiede è diviso da una fila di formiche, sembrano infinite. Potrebbero salire sul corpo del vecchio, creare un formicaio immenso, il più grande che ci sia mai stato.
Ci mettiamo a camminare.
Non so davvero se dovrei essere qui. Le formiche non finiscono. Il nonno non fa rumore, immagino ci sia pelle ad attutire i movimenti, altrimenti si sentirebbe lo scricchiolio. È la prima volta che vedo un morto vivo. Ho letto tanto e sentito tanto, però, si sa, la prima volta è sempre la prima volta. Ogni morto è diverso, come i vivi d’altronde. Certi diventano farfalle, altri rimangono legati a quello che sono stati, alcuni decidono di non esistere più e basta. Se l’unica salvezza dalla vita è la morte stessa, scoprire che c’è altra vita dopo potrebbe impanicare qualcuno. Chissà la vita dei morti com’è. Allora faccio: come si sta dalle tue parti? il nonno mi guarda. Non ha mai portato cappelli. Ma c’è anche da dire che non ha mai dovuto vergognarsi di un cranio completamente bianco. Il nonno non risponde. Magari non può parlare, non avrà mica le corde vocali e tutta quella roba lì.
Siamo divisi dalle formiche. Lui cammina sul lato destro del marciapiede, io su quello sinistro. È morto quattro mesi fa. Non c’è nulla intorno a noi, eccetto qualche albero, il marciapiede e il cielo violastro. Cerco di ricordare perché ho chiesto di rivedere mio nonno se non ho nulla da dirgli. Ma poi è davvero mio nonno? non era così basso.
Gira a destra. Lo seguo. Incominciamo a camminare in un prato. L’erba cresce male e solo in alcuni punti. Le formiche continuano la loro fila ben educata. Un minuscolo passo alla volta. Un minuscolo spazio occupato in sequenza. Forse c’è un campo di forza invisibile che divide me e nonno-teschio alla mia destra. Uno di quei campi che, se ti avvicini troppo, ti bruci o ti rimanda indietro senza fronzoli. Non ne sono certo, è quasi una terza presenza. Resta il fatto che non ho nessuna voglia di avvicinarmi al teschio, anche se è mio nonno.
Da questo preciso punto, che cambia ogni secondo, dato il mio passo continuo, il prato non ha confini precisi. Il mondo fisico sembra avere origine dal mio stesso occhio. Le formiche sono ancora lì. Ancora in fila. Ancora ci dividono. Noto un tavolino rotondo, di quelli che si vedono nei vecchi caffè inglesi, con le sedie già posizionate per essere occupate, girate di tre quarti per permettere ai piedi dei due clienti di non toccarsi. Il tavolo è retto da una gamba poggiata su due archetti di metallo che toccano terra. Le formiche passano tra i due archetti dividendo il tavolo, che poi è il mondo stesso, in due facce uguali.
Mi siedo. Il nonno anche e non scricchiola nemmeno ora. Avrà il corpo ricoperto di pelle. Si toglie il cappello e mostra la parte superiore del teschio. Non che mi aspettassi sorprese, è una superficie bianca. Solo ora mi accorgo che il nonno non ha le mani. Ripenso a quando si è tolto il cappello la prima volta, durante il saluto, ma l’immagine è già sgranata. Deve fare proprio schifo morire, ma non dico niente, tanto non possiamo comunicare. Allora guardo il cielo, che è la più veloce via di fuga in una situazione di disagio, e noto che ci sono nuvole e che potrebbe cadere una pioggia di vomito viola sulla mia testa. Il vomito tra i capelli fa schifo, è appiccicoso e rischia di provocare altro vomito. Per il nonno non mi preoccupo, scivolerebbe liscio sulla perfetta superficie cranica. Forse non è così male avere un teschio e non la solita pelle con tutte le scanalature che ha e che ci rendono chi siamo.
Mi accorgo che il nonno perde di forza. Non so bene come, lo percepisco. Nel suo corpo morto sta sparendo la vitalità, che è un assurdo controsenso. Sbatte il teschio sul tavolo e penso sia morto, di nuovo. Noto che sulla superficie cranica c’è un disegno inciso. Mi metto a piangere, in silenzio, perché ci siamo io e il nonno mano nella mano. Il disegno è incredibilmente realistico, una delle mille passeggiate per negozi che abbiamo fatto insieme. È incisa con uno strumento che, nella nostra realtà, non esiste. Una foto scattata a un ricordo, una memoria così dura da imprimere fisicamente i suoi tratti sul cranio – il terrore di sparire nel flusso della morte. Allora mi alzo e inizio a correre parallelo alla linea delle formiche. Corro perché il nonno è morto, di nuovo. E non sono stato in grado di trattenerlo nemmeno questa volta. Non sono riuscito a trattenere il corpo sottile ormai mangiato da esseri mostruosi.
Il giardino è potenzialmente infinito. La mente è potenzialmente infinita, potrebbe continuare a creare per secoli. Per quanto corra il tavolino non sparisce alle mie spalle. È come se corresse con me o mi trovassi su un tapis roulant dello stesso colore del prato che, scorrendo alla mia stessa velocità, mi fa credere di correre. Allora mi fermo. Cazzo, mi fermo e cerco di affrontare la situazione. Le formiche continuano a fare un passo dopo l’altro. A occupare lo spazio successivo in una sequenza infinita di vita che scorre sempre nella stessa maniera, senza mai un vero stravolgimento. Torno indietro e con quattro falcate sono di nuovo al tavolino.
La testa del nonno è precisamente confinata nella sua metà di tavolino. Guardo ancora l’immagine. Le formiche iniziano a salire, le vedo scalare l’unica gamba del tavolo, sempre in fila. La linea adesso sale, una linea piatta che, in un punto impreciso, ha un picco improvviso. Salgono, arrivano sul tavolino e inizia il caos. Qualcuno libera le formiche, scioglie i nodi di cordicelle invisibili che le tenevano legate una all’altra, senza possibilità di movimento. Un fiume nero inonda il cranio bianco del nonno. Le formiche iniziano ad affondare nell’immagine incisa. Rivedo i due vermetti che abitano le due cavità vuote, gli occhi. C’è uno scontro, una guerra lampo vinta dalla massa nera. Le formiche iniziano a scavare, rovinare, morsicare. Le formiche oscurano l’immagine che il nonno, con estremo dolore, ha inciso nell’unico punto che avrei potuto osservare. L’unico modo di comunicare con me qui, dopo tutto l’amore scambiato e trattenuto. Le mie braccia iniziano a tremare e una sensazione di furia avvolge ogni singolo dito delle due mani. Mi avvicino al tavolino con un balzo e inizio a schiacciare tutto quello che si muove. Provo ad arginare la massa nera che sta diventando sempre più grande. Sono troppe. Allora mi concentro sulla rabbia e sento le mani prendere fuoco e iniziare a lasciare scie di fiamme dopo ogni singolo movimento. Inizio a bruciare. Brucio tutto quello che si muove. Non riesco a smettere. Brucio il tavolinetto. Brucio il prato tagliato male. Brucio la colonna infinita di formiche schiave che continuano ad attaccare il nonno. Si preparano a mangiare tutto quello che ha la sola colpa di essere morto, annullando per sempre il valore espresso in vita. Brucio i ricordi e l’inutilità che portano incollati.
Passa del tempo. C’è il cielo viola, prossimo ormai al vomito grumoso. Comincia a piovere.