1. Pietro
“Sbrigate, me pare ‘nu si bemolle”.
La voce roca di Enzo mi risveglia dallo stato catatonico in cui sono precipitato.
Il rivolo carminio che si fa strada tra i sanpietrini di Portacarrese a Montecalvario non assomiglia né a quelli di Gentileschi né a quelli di David. Ma poi quando mai l’arte ha insegnato il mondo? È successo tutto in pochi istanti, non me ne sono neanche accorto: Enzo che si scalda, il musicista che lo manda a quel paese, la lama a serramanico che scompare nella pancia dell’uomo una, due, tre volte, lui che si accascia, Enzo che impreca, gli sputa in faccia e si allontana. Il vicolo ora è deserto. Ma prima? Qualcuno ha assistito alla scena? Non riesco a muovermi. Un formicolio mi punge dalla pianta del piede fin sotto al buco del culo. Punto gli occhi verso Enzo, non riesco a pronunciare neanche una parola.
“Uagliò, vuò aspettà ‘o muorto che vene?”
Mi gira la testa, mi viene da vomitare. Ma chi m’ha cecato? Come se non lo conoscessi da quando teniamo quattordici anni. Cioè da quando io mi iscrissi al Liceo Artistico di Largo Santi Apostoli e lui finì due mesi a Nisida per spaccio di ingenti quantità di sostanze stupefacenti dopo essere stato colto in quasi flagranza di reato. Dieci anni che lo vedo fare dentro e fuori e non lo sapevo che finiva così? Ma mettiamo pure il caso che l’avessi immaginato, come potevo credere che andava a finire così veramente? Io un po’ di paura volevo fargli al musicista, tutto qua. Quel tanto di fifa blu che si meritava dopo che ieri me lo sono visto arrivare di fronte mentre iniziavo a disegnare col gesso bianco, sul marciapiede di via Toledo, il profilo della Dama con l’ermellino e mi ha detto Oggi è magra, meglio che te ne vai altrimenti so’ tarantelle. E credetemi se vi dico che non mi ha lasciato aria fino a che non ho preso zaino e zainetti e sono andato via. Hai voglia a dire artisti di strada e solidarietà creativa, un poco a te e un poco a me. Il marciapiede è tale e quale alla vita, è un’azienda impietosa morstuavitamea, una giungla nera e selvaggia uscita dal pennello di Antonio Ligabue. È solo per questo che ho chiamato Enzo. Per mettere su una piccola sceneggiata e far vedere che dopotutto anche io, mingherlino e madonnaro, se c’è bisogno so fare la voce grossa.
Lo vedo steso a terra, sfocato, illuminato mi sembra da un’ombra azzurra, con la custodia della chitarra ancora stretta nella mano. Un quadro impressionista, penso. Quello che non sono mai riuscito a dipingere. E per un attimo, mentre la campitura di sangue si allarga a dismisura sotto di lui, incrocio i suoi occhi verdi e quasi mi viene da chiedergli scusa. Poi mi ritrovo strattonato da Enzo.
Ancora respirava, quando me ne sono venuto via.
2. Enzo
Non ha fatto niente, aspettava il morto che veniva. Pietro stava là, fermo allerta che mi pareva un si bemolle. Senza stile.
E che vi devo dire, per me è sempre stata una questione di stile. Bisogna indovinarle la giacca, la moto, la femmina. E pure la fatica. Perché nella vita, prima dei soldi, è lo stile che ti salva dalla fame nera. Quello che fa sapere chi sei, agli altri e pure a te. Quello che ti mantiene libero anche se sei ammanettato e che non ti fa inculare di notte in cella. Quello che ti emoziona se ci ripensi e fa dire a tutti “Non ci credo”. Quello che quando passi per strada non ce n’è uno che non si gira, fosse per rispetto o per disgusto. Lo stile, nel bene e nel male. Questo deve tenere la vita. E se si sceglie un destino, deve essere d’effetto. Una cosa che tutti quanti, anche solo per un momento, devono restare a bocca aperta e pensare, anche forse sentendosi in colpa: “Magari anche io”. Lo stile, e nient’altro.
Ed è per questo che quando Pietro mi ha chiesto di aiutarlo per un servizio ho capito subito che bisognava fare un pezzo. Un mazziatone senza stile non serve a niente. C’è da lasciare il segno, sempre, senza fermarsi mai. È un fatto di principio. E se ho fatto quello che ho fatto a quel chiachiello con la chitarra, è stato solo per una questione di stile. E questo lo dovete scrivere, avvocato.
3. Si bemolle
È stato un lampo, appena un luccichio. Ho sentito una spina gelata infilarsi dentro il mio stomaco, poi un fuoco sotto la maglietta. Mi sforzo di restare in piedi, ma le cosce non reggono alle vertigini. Mentre crollo all’indietro riesco a pensare soltanto alla mia Di Giorgio brasiliana, così mi aggrappo alla cinghia della custodia sperando di attutire il colpo della caduta.
La vista s’annebbia per un istante, giusto il tempo che una goccia d’acqua mi piove addosso facendomi tornare dentro al mio corpo indolenzito e sdraiato in mezzo ai Quartieri Spagnoli. Il cuore picchia sullo sterno. Sudo freddo. Una fitta mi storce l’addome, eppure la strada sotto la schiena mi sembra così calda che, nonostante tutto, un senso di sollievo mi distrae.
Di colpo, una consolazione imprevista: nell’aria si sparge un intenso odore di soldi. O almeno così mi pare. Strano, penso, oggi la giornata è stata così misera che se ho buttato in tasca sette otto euro in monete da 50 è già tanto. Volto la testa inseguendo il profumo pungente ma vicino a me anziché una busta di spiccioli noto solo una grumosa pozzanghera rossa. Mammadocarmene. Ma è sangue? È mio? M’hanno appizzato.
“Sbrigate, me pare ‘nu si bemolle”.
Sento la voce del mio assalitore, ma non lo trovo. Riesco però a vedere il suo compare, fermo sopra di me, girato di spalle.
“Uagliò, vuò aspettà ‘o muorto che vene?”
Incrocio lo sguardo del ragazzo imbambolato, lo riconosco: è quella mezza chiavica che ieri s’era messa in testa di fottermi il traffico di gente con i quattro gessi colorati che si ritrova. Ma vedi tu se è cosa. Ha dovuto chiamare l’amico per farsi aiutare, questo fecatiello muccuso. Lo fisso. Vorrei vomitargli addosso tutti gli insulti che tengo schiattati in gola, ma appena apro bocca mi esce fuori un alito di sangue. Senza darmi il tempo di riprendere fiato, se la squagliano, e io mi ritrovo solo, orizzontale, a fissare la feritoia di cielo azzurro tra i due palazzi del vicolo.
Provo a mettermi seduto, ma un tremore mi attraversa la pelle. Annaspo. Ho così sete che mannaggia scambierei santannaemmaria per un bicchiere d’acqua. In sordina mi risuona nelle orecchie, con tutto il suo potere rivelatorio, quel si bemolle pronunciato a sproposito e rimastomi appiccicato addosso. Bemolle. Il segno diminutivo che abbassa l’altezza, lasciando perdere mezzi toni. Bemolle. La traccia che ordina malinconiche armonie minori e prepara melodie piene di tristezza. Se la strada fosse uno spartito e la vita un’orchestra, steso in questo pentagramma sgretolato dei Quartieri potrei essere io, per una volta, il maestro che dirige. E allora sì che finalmente scriverei una canzone sincera. Inizia così, con un si bemolle. Pianissimo. Quasi sanguinando. Sbrigate.