«When you’re in the groove
And you’re full of joy
Just beat your heart, roll your eyes, say hoy
Hoy, hoy»
Da quando sono bambina, mi addormento carezzandomi. Con la punta delle dita, sfioro l’incavo del braccio, o la parte alta dell’inguine, o il lobo dell’orecchio.
La sensazione si imparenta al solletico, e questo mi piace. Ma il vero piacere lo raggiungo solo proseguendo nel movimento fino a ipersensibilizzare la pelle. Allora si crea una complicità squisita, tra la punta del dito e la cute, come un languore, che mi ricorda certi stati di febbre – anche la febbre, se non eccessivamente alta, è voluttuosa. Qualche volta, nelle cattive giornate, mi sorprendo a farlo anche sul divano, o seduta al tavolo mentre studio, imbambolata. A qualcuno pare una stravaganza, ma io non so curare me stessa diversamente: le sensazioni, più dei sentimenti, mi tengono unita. Mi ricordano che ho un corpo, che questo corpo è casa mia: dove altrimenti andare a cercarmi, quando non mi trovo?
Oggi è successo un’altra volta: sono sparita. Da qualche parte si deve pur finire, pensavo, mentre camminavo per la città, e mi cercavo. Avrei voluto liberare le strade dalla folla, che mi rallentava e mi schiacciava. Ho sempre indovinato – tra me e gli altri – non so che gravosa distanza, che separazione ridicola. Mi sono tanto a lungo divisa, tra lo sforzo di stare nel mondo e i dispotismi delle mie ritrosie, che sempre più spesso sparisco, e nella folla sono costretta a cercarmi. (Hanno voci tanto dolci, e persuasive, le mie ritrosie. “Resta con noi, sempre con noi, non badare agli altri”, mi dicono, come tante gatte languide e regine). Anche oggi l’ho guardata malamente – la folla invasiva e mortificante: avrei voluto chiederle di farsi da parte. Ma la folla è stupida e non pensa, mi sono compiaciuta di sibilare sottovoce. Quale voce? Oggi non ho più una voce. Sono solo una fessura verticale che cammina per le strade in cerca di se stessa.
Sono scesa lungo Via Chiaia, tra i suoi ciottoli argentati, ascoltando canzoni monotonali che mi davano un sentimento di umore blu scuro, di abbandono nero. E davvero mi pareva di ascoltarle come si ascolta un destino; e scendevo, insieme alla folla, credendomi chiamata da una fatalità. A metà del cielo, c’era una mezzaluna tanto nitida e brillante da sembrare finta. Grandi nuvole scure le si appressavano, annunciando il temporale. Allora ho affrettato il passo verso l’angolo a destra in fondo alla via, per vedere il mare agitato dall’elettricità del vento. L’acqua si fa pesante, molto densa, quando il cielo è così violento. La superficie, nera e torbida, non pare affatto più la stessa; è forse sprofondata, verso il fondale, mentre al suo posto sale, a scrutare la città, lo sguardo torvo degli abissi.
Poco prima di raggiungere la fine del marciapiede, ho esitato. Nuvole rosate si profilavano ai lati dell’orizzonte, dietro al Vesuvio e, all’altra estremità, appena oltre il promontorio di Posillipo. Esitavano, anche loro, come morbidezze placide e instupidite; presto avrebbero invaso la porzione centrale del cielo ancora scuro e minaccioso. Allora anche il temporale mi è sembrato una farsa – energia debole, ridicola. Ho risalito lentamente Via Chiaia verso casa.
Di sera, nel letto, ho cercato la pelle con avidità. Mi addentravo già nella zona di transizione tra la veglia e il sonno – sempre evocativa, per me, penosamente fantasiosa – quando ho cominciato, senza pensarci, a perlustrare il cerchio di mucose in mezzo al petto. Era un languore diverso dagli altri, invasivo, quasi pulsante, e dava numerosi ricordi – di calore, mani maschili, e poi qualcos’altro, di molto più torbido e antico, che d’istinto ho associato all’infanzia, al volto di mia madre. Perché, non so. Ancora non dormivo, quando mi è parso di sentire come un pizzicore, ripetuti saltellii, lungo il tondo dell’areola. Ho immaginato, allora – sorridendo – invisibili creature umane impegnate a fare chissà che cosa nella loro esigua terra di mucosa tiepida. La cute un po’ doleva. Però creava sensazioni, e questo era bene. Io posso sparire, ma il mio corpo no. Dove sono? Non importa: sempre mi aspetta, a casa, nella nostra casa di stravaganze. E forse, stasera, non siamo soli.
Di notte ho sognato di camminare in discesa lungo Via Chiaia. Era quasi sera, e pioveva, di quella pioggia fine e giocosa che è gradevole veder puntinare i vestiti. Mi pareva che ci fosse una festa, in fondo alla strada; le andavo incontro con frenesia crescente. Le mie gambe gioivano – sì, erano allegre. Nel cuore presentivo tanta luce. Quando raggiungevo il lungomare, una canzone echeggiava intensamente nell’aria, come scendendo dal cielo insieme alla pioggia. In lontananza, a un lato della costa, il Vesuvio scintillava di riflessi verdi e bagnati, ma non era il Vesuvio. Sotto il suo florido manto vegetale, si intravedeva un pallore rosato, soffice. Sulla sua cima – non cava, ma sporgente, con una punta di carne scura e familiare – due piccole sagome nere, anch’esse familiari, danzavano in tondo. Io avevo, da questa visione dei ballerini, e dalla musica sfrenata che cadeva dall’alto, una contentezza febbrile, come uno sbalzo nell’etere. Li osservavo, poi, trepidando, mentre scivolavano giù dalle mucose del Vesuvio, fino alle sue pendici e oltre, sulla superficie del mare. Sfilavano in volo a pochi passi da me, che dalla strada mi affacciavo il più possibile verso l’acqua, cosicché mi era stato possibile scorgere, per qualche attimo, una lunga chioma scura, e un naso, piccolo e femminile, tra le ciocche umide, sopra la bocca che cantava. Ero io.