Il tempo di togliere le ciabatte, srotolare le stuoie e subito, sotto l’ombrellone, io e mia cugina cominciavamo a mangiare la focaccia: voracemente, dividendocela con le mani, facendo a gara a raccogliere dalla teglia ogni briciola rimasta.
Dopo, correvamo alle cabine; o andavamo a fare la pipì, soltanto per far passare il tempo; oppure ce ne stavamo al bar, accanto al parcheggio che vent’anni dopo sarebbe diventato abusivo come il lido, ma che allora, in agosto, era pieno zeppo di macchine. Al bar c’era il juke-box, e se anche non avevi soldi, potevi sempre aspettare che qualcuno inserisse una moneta e scegliesse una canzone. Passavamo ore ad ascoltare canzoni a sbafo. A me piaceva Gloria. Mia cugina e io la cantavamo a squarciagola: Manchi a questa bocca! Glori-a! Che cibo più non tocca! Alla fine, quando nell’aria rimaneva soltanto il rumore dei flipper, facevamo una corsa agli scivoli, che scottavano anche più della sabbia; o camminavamo sul bagnasciuga, in cerca di conchiglie. Fino a mezzogiorno, quando potevamo fare il bagno, e io tutte le volte scoprivo di non averne più voglia. Mia cugina correva subito in acqua, io restavo a riva a guardarla. La salutavo da lontano col braccio alzato, annoiata.
(I bambini intorno che mi spruzzano bagnandomi i capelli, la mia umiliazione… perché ricordarli?)
Io sono due in quel momento: una che nuota a grandi bracciate fino al lido di Pulsano, l’altra che resta lì a guardare. E nessuna delle due si sottomette all’altra. Ognuna compie il suo destino, come si compie un dovere. Nella me che aspetta, senza nemmeno provare a buttarsi, non c’è ombra di rinuncia, di sacrificio. Al contrario: lì, ferma a riva, assecondo la mia vocazione.
Quando tornavamo all’ombrellone – nelle ultime file, così lontano che da lì il mare quasi non si vedeva – il sole era alto, rovente. Lo zio diceva: “È tardi”. E allora le stuoie venivano arrotolate di nuovo e si tornava alla macchina. “Perché non fai mai il bagno?” mi chiedeva mia cugina. “Non mi piace” rispondevo, già segretamente aspettando di tornare in spiaggia il giorno dopo. Al mio polso l’orologio segnava le dodici. “Andiamo via prima oggi…” azzardavo, imbronciata. “Decide papà. Che vuoi farci?” rispondeva lei, e mi solleticava le ascelle per farmi ridere. Mentre passavamo in fila indiana davanti al bar – lo zio con la borsa termica, mia cugina con l’ombrellone e io dietro, ultima, con le stuoie – il juke-box cantava Gloria.
Mi imponevo di non guardare mai il mare fuori dal finestrino nel tragitto di ritorno in macchina; tenevo lo sguardo fisso sul mio orologio: cinque, venti, trenta minuti… Trentacinque era la distanza massima dal nostro ombrellone alla porta di casa, se lo zio non si fermava a comprare la frutta alla bancarella di qualche ambulante. La distanza ‘vera’ tra me e il mare, quella rimaneva incommensurabile. “Quanti bagni hai fatto oggi?” voleva sapere a tavola la zia. “Due” rispondevo, con la spavalderia malinconica dei bugiardi.
Subito dopo pranzo riposavamo, la tapparella abbassata per tenere fuori il sole del pomeriggio. Con la testa sul cuscino, tra le palpebre socchiuse guardavo la pelle arrossata di mia cugina e i piccoli seni lasciati bianchissimi dalla protezione del bikini. Per quanto ne sapevo, tutto il mondo avrebbe potuto dissolversi in quell’istante, nel chiarore abbagliante dei seni di mia cugina. E quell’istante sarebbe durato in eterno, per tutte le estati nei secoli dei secoli.
Senza accorgermene né volerlo, consacravo il mio futuro all’attesa. Ogni giorno aspettavo che tornassimo a parcheggiare sotto il grande cartello con la scritta Arenile Militare di Taranto, e che qualcuno al bar mettesse Gloria, e che avessi finalmente voglia di fare il bagno, e che la lancetta più lunga dell’orologio scandisse gli ultimi trentacinque minuti. Ogni giorno di ogni estate. Fino a quando lo zio morì. Era il quindici luglio del millenovecentottantotto. Noi parenti eravamo seduti ai primi banchi in chiesa. Intuivo la mia responsabilità e perciò stetti tutto il tempo seduta composta. Tenendoci per mano, mia cugina e io cantammo Gloria, come in spiaggia: ma con altre parole.
Ero convinta che dopo i funerali saremmo andate in spiaggia. Non ci andammo, ovviamente. Anzi, da quel giorno all’Arenile io e mia cugina non ci andammo più. Quanti anni sono passati? Trenta? Quaranta? Ormai ho perso la speranza di rivedere il mare. D’estate affitto case ogni volta più belle, ogni volta più vicine alla spiaggia (“Cento, duecento metri al massimo, signora. Dal terrazzo la vista è magnifica”). E, quando arrivo, effettivamente il mare è lì, sotto i miei occhi, ed è tutto quasi uguale. Ma quel ‘quasi’ è atroce. Nessun agente immobiliare può spiegare a me cos’è il mare.
Ancora adesso, al lido, passo gran parte del tempo al bar. Nell’avventore solitario seduto al tavolino in fondo mi pare a volte di riconoscere un appartenente all’ordine fondato da me in quelle lontane estati degli anni Ottanta: l’ordine di quelli che aspettano. Da lontano il mare ci chiama, ma noi lo ignoriamo. Spingiamo avanti il tempo fino all’estremo. Ancora le dieci… Già le undici… E alle dodici, infine, raccogliamo le nostre cose (i libri rovinati dalla salsedine, i sandali, le borse troppo grandi) e ci avviamo svelti verso casa. No, non soffriamo. L’attesa è il nostro tempo migliore.
Ho trovato questo racconto molto bello, mi ha fatto rivivere molti momenti della mia infanzia. Bellissima l’idea dell’attesa. Grazie
Le scene sono comuni anche a chi ama il mare e il bagno in mare. La sosta al bar oggi è un grande momento di incontro, di scambio, di voglia di conoscere altri. Di tutto quello che non può avvenire se stai a prendere il sole disteso a lucertola. Il dettaglio dell’ambiente si impone sulla parte centrale dell’attesa. Bello e da rileggere per comprendere meglio il sentimento che vive la protagonista. Grazie.