Esisto io, il buio, la stanza, il silenzio e la compenetrazione. Tengo la testa sotto le coperte, gli occhi serrati, non disperdo il calore. Mi concentro soltanto su due parole.
Spazio e tempo. Le addento. Le stritolo. Le violento. Le metto da parte. Entro in una nuova relazione. Ci siamo io e l’universo. Faccia a faccia. Il finito e l’infinito. L’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande. Mi rapporto, e tendo allo zero. Sento il peso dell’universo schiacciare ogni cellula del mio corpo.
È insopportabile.
Mi rannicchio. Mi contraggo. L’universo mi comprime. Provo dolore.
Poi mi annienta, mi annulla, mi elimina, mi assorbe. Provo piacere.
Torno al tempo. Quello senza inizio e senza fine. Sto per morire. Anzi, sono già quasi morto. Anzi, mai esistito. Al denominatore sta l’inconcepibile alla mente umana; io passeggio al numeratore. Sopra una linea dritta. Siamo una frazione. Io sono nervoso, le braccia dietro le spalle, le mani strette, la schiena curva, il capo chino. E passeggio avanti e indietro sulla linea. La divisione. Faccio due calcoli. Uso i rapporti. Il mio tempo vitale è nulla, la mia dimensione fisica è niente. Il mio significato non ha traccia. Esisto e già non sono mai esistito. Sono infinitesimale oltre ogni concezione. Sono niente.
E oggi è Natale. Le strade sono vuote, fuori c’è la neve. A casa dormono tutti. Mi alzo, mi vesto. La sciarpa, gli stivali, il cappotto, il berretto. Faccio piano. Lascio un biglietto all’ingresso. Rientro all’ora di pranzo.
Esco, scendo a piedi le scale. Non incontro inquilini. Apro il portone di legno. Comincio a camminare, inghiottito da un buco nero innevato in una versione sciatta, banale e metaforica.
Risalgo, si è fatto tardi. Uso l’ascensore.
Schiaccio il terzo. Conto i piani attraverso la griglia. Suono alla porta, apre mia madre. Attraverso l’ingresso. Lavo le mani. Scivolo in sala da pranzo.
Mio padre dice: sono le due e un quarto, non hai rispetto. Io alzo le spalle, lui batte i pugni sul tavolo apparecchiato.
I piatti tremano, mia madre trema. Le mie sorelle fissano il brodo. Il liquido s’increspa. I tortellini si riposizionano, usano la scala dell’impercettibile.
Mio padre dice: oggi è Natale. Io taccio e faccio una faccia.
Lui dice: dammi una giustificazione. Dico: io sono vecchio.
Mio padre dice: ora basta. E io dico: sì, basta. Mi siedo alla sua destra.
Lui mi fissa e carica il braccio. Parte lo schiaffo. Gli afferro il polso con la mano sinistra, mi alzo e con la destra appoggio le punte di una forchetta d’argento sulla sua pappagorgia. Un gesto secco. E presso, senza affondare.
Lui sgrana gli occhi, mia madre grida, la più grande delle mie sorelle ora piange, le altre due si stringono le mani.
Dico: io sono vecchio e tu sei morto.
Dico: non capirai mai perché io sono vecchio e tu sei morto; perché tu sei morto e io lo sono quasi.
È sul punto di piangere, singhiozza minacce, maledizioni e suoni da grasso mammifero effeminato steso su una lastra di ghiaccio.
Restiamo per un attimo lungo in questa posa. Mio padre. Mia madre. Io. La forchetta. Le mie tre sorelle.
Ritratto di famiglia in un interno, con forchetta.
Mia madre supplica: ti prego. Io non rimangio, né retrocedo. Rigido, fermo, un soldatino di plastica. Pronto a conficcare.
Si chiama impasse, tutto questo vuoto non riempito, si chiama impasse.
Le punte della forchetta ricavano delle micro-fossette; le luci intermittenti dell’albero scandiscono il tempo; al piano di sopra, il suono di un carillon.
Occorre riavviare l’azione. Altrimenti, potrebbe accadere.
Mi sento stanco e un po’ in imbarazzo.
Dico: la linea retta l’ho percorsa tutta, quel che rimane è irrilevante.
E alzo le sopracciglia.
Mia madre dice: hai sedici anni.
Le mie sorelle ripetono: hai sedici anni.
Gli occhi di mio padre fissano il tetto.
Io dico: sì, in effetti ho fatto presto.
Le luci dell’albero hanno smesso di lampeggiare e, al piano di sopra, il carillon di suonare.
Io lecco, succhio, squaglio, il verbo “cristallizzare”.