Al mio paese il Santo Patrono lo si festeggia alla fine di agosto.
La pelle che trattiene ancora il segno dei soggiorni al mare appena conclusi o dei pomeriggi alla piscina comunale passati a sentirsi cauterizzare gli occhi dal cloro, si fa finta di non vedere, di non sapere che le vacanze estive sono agli sgoccioli. Che da lì a poco, quando il Santo se ne sarà andato, ricomincerà tutto da capo.
C’è un momento preciso in cui capisco che è arrivato il Santo. Succede sempre di pomeriggio, appena dopo pranzo, appena passato il Ferragosto. In cucina, seduto al tavolo sparecchiato, sento vibrare i vetri sottili delle finestre che danno sulla strada. Sono i camion che sfilano sotto casa, trasportano le giostre le cui sagome, legate strette sotto spessi teloni, sembrano quelle di insetti dalle dimensioni preistoriche, sedati in un sonno artificiale, con le lunghe zampe sistemate in modo che non si possano muovere, nel caso qualche contraccolpo dell’asfalto li risvegli. Le roulotte chiudono il lungo corteo, con il loro carico di vite che ho sempre immaginato così libere, così diverse dalla mia. Inizia la festa ma durerà come dura un fuoco d’artificio.
Oggi ci sono poche persone. È il pomeriggio del quinto giorno, tra le giostre il vento imprime alla pioggia una traiettoria obliqua. Aspetto che gli altri arrivino, appoggiato alle casse dell’autoscontro ancora mute. Vedo Omar e Marco spuntare da dietro il tiro a segno. Si avvicinano, scambiamo qualche battuta fingendo allegria senza convinzione. Dalla cabina, tra le luci fluorescenti dei neon, il bigliettaio lascia scorrere lo sguardo sui pochi presenti; poi inizia. Aumenta il volume delle casse, le fa pulsare alternando pezzi hardcore a tormentoni estivi. Intorno, alcune giostre hanno già lasciato vuoti i loro spazi. Le bancarelle dove tutti i giorni dall’inizio della fiera siamo andati a comprare croccante e frittelle hanno abbandonato i loro stalli stamattina e la piazza del paese adesso sembra una mela rosicchiata. Sul torsolo, oltre all’autoscontro e il tiro a segno, rimangono una giostra con i cavalli e la bancarella con i cigni di plastica. Ci ho vinto un peluche a forma di serpente per Alice, ieri sera. È appena tornata dalle vacanze al mare con i suoi. Tutte le volte che ho aperto bocca, lei mi ha zittito, dirigendo subito il discorso sulla compagnia del mare. Ne parla con espressioni iperboliche. Ho pescato per lei cigni bianchi e rosa. Il proprietario li toglieva dall’amo uno a uno, controllando il punteggio stampato sulla pancia di ognuna delle mie prede di plastica. Alla fine ho racimolato abbastanza punti per ottenere il pupazzo. L’ho dato con un certo orgoglio ad Alice, lei ha storto la bocca. Quando l’ho riaccompagnata a casa, lo ha lasciato sui sedili posteriori, fingendo di dimenticarselo. Oggi pomeriggio lei non c’è, è andata con sua madre dalla parrucchiera. Ci vedremo stasera alla cena di classe. «Benvenuti all’autoscontro Ghirardi. Forza, tutti a bordo dei nostri bolidi! Giù il gettone, si parte!» Tutto questo entusiasmo artificioso, tutto il chiasso delle casse, solo per noi e per qualche passante. Uno spreco, nel pomeriggio umido, intriso di una sensazione scomoda, indefinita, di qualcosa che stiamo per perdere per sempre. Omar e Marco salgono su due vetture. Dal bordo pista li guardo lanciarsi l’uno contro l’altro in una serie di frontali che li fa sobbalzare sui sedili. Urlano come invasati. Prendo una sigaretta dal pacchetto nella tasca dei jeans, faccio la conca con la mano fasciata per accenderla. Mi sono fatto male, l’altro giorno, aiutando mio nonno nella sua vigna in fondo al paese, di là dalla ferrovia. Un brutto taglio fatto per distrazione. Alice non si è preoccupata di chiedermi come me lo sia procurato. Quando i ragazzi scendono dalle auto, la pioggia si è attenuata. Me ne voglio già andare, invento una scusa e mi allontano: mi lascio alle spalle quel che resta del Santo.
Allora la Katia è andata davanti all’albergo dove stava la Laura e quando l’ha vista uscire gliene ha urlate dietro di tutti i colori. Dovevate vedere che faccia aveva quella…
Alice è seduta accanto a me, da quando siamo qui non mi ha rivolto la parola, parla con le altre della classe. Luca cerca di intavolare un discorso, nel tentativo di contrastare la voce di Alice alterata dalla concitazione: «Allora, alla fine avete deciso a cosa iscrivervi l’anno prossimo?» A mezz’ora dal nostro paese c’è una delle città universitarie più rinomate d’Italia. È dato per scontato che chiunque esca dal nostro liceo si iscriva a un corso di laurea laggiù. Vuoi mettere la comodità? Marco e Luca faranno farmacia. Omar ha scelto ingegneria meccanica. E io? Io. Con il sei tirato in matematica e in fisica. Avrei voluto fare il classico. Ma l’istituto era troppo lontano. Svegliarsi prima del sorgere del sole, un’ora di viaggio in autobus. La stessa cosa al ritorno. Tutti i giorni, sei giorni a settimana. Un’enorme perdita di tempo, secondo le precise parole di mio padre. Alice si iscriverà a giurisprudenza, suo padre ha uno studio legale importante in città. Mentre gli altri parlano, mi fisso la fasciatura. La tintura di iodio attraversa gli strati di garza fiorendo in una macchia giallognola dai bordi irregolari. Avrei potuto tranciarmi un dito, con quelle cesoie. Avevo la mente altrove. Mio nonno dice sempre che ho una testa che non la mangerebbero nemmeno i maiali. Lui lo dice scherzando, io invece comincio a pensare davvero che non sono capace di ragionare a dovere. Altrimenti saprei esattamente cosa fare, dopo la maturità. Altrimenti, saprei prendere da parte Alice e spiegarle che le cose tra noi non vanno affatto bene. Vorrei rispondere a Luca: “Mi iscrivo a lettere. Voglio insegnare italiano”. I miei non sarebbero d’accordo. Vogliono che diventi farmacista come loro. E i miei amici? Mi prenderebbero in giro, per loro alle facoltà umanistiche ci vanno solo i fessi. Allora glisso il discorso, dico: «Si è fatto tardi. Vi riporto a casa?» Chiediamo il conto, usciamo. Salutiamo gli altri e andiamo verso la mia Punto nera. Alice non nasconde il fastidio per la presenza dei ragazzi sui sedili posteriori. Ognuno di loro potrebbe rientrare a casa a piedi ma il passaggio in auto è una scusa, giusto per sentire un po’ di musica e stare ancora insieme. Per illuderci che l’estate finisca il 21 di settembre, che ci sia ancora qualcosa di bello che ci aspetta. Infilo il cd nuovo nell’autoradio e metto la prima. Mi è costato una follia, trentasettemilalire. Quiero volar/Por cielo y mar… Esco dal paese, imbocco la statale sotto un nuovo temporale. Alice guarda fuori, le braccia conserte. Ha il broncio. Ti invidio amore mio, penso. Ti invidio perché a te va bene la strada che ti hanno tracciato davanti. Ti sta a pennello. Quiero volar/Contigo amor. Aumento la velocità del tergicristalli, il paesaggio oltre il cruscotto sembra sciogliersi in centinaia di frammenti liquidi e confusi che colano sull’asfalto. I ragazzi dietro cantano. Quiero que el llanto del amor me haga vibrar… Forse sarebbe meglio rassegnarsi, iscriversi a farmacia. Ma devo migliorare i miei voti. Ecco cosa farò quest’anno: mi impegnerò a tirar su la media. Hanno ragione i miei. In fondo a cosa serve insegnare Dante e Boccaccio oggi? Metto la freccia e prendo la strada interna che riporta in paese. Nell’auto entra una luce bianca, fortissima, divisa in due fasce all’altezza dei finestrini. Mentre i vetri esplodono, Alice pare lievitare, assomiglia a una bambola di pezza che danza sul sedile in maniera scomposta. Sento un canto ma non capisco più se provenga dall’autoradio o da dentro la mia testa. Escuchame… Escuchame… L’ultima cosa che vedo è il serpente, sembra avere vita propria. Finalmente non è più un mucchio di stoffa pieno di ovatta, trova un varco in mezzo al vetro anteriore e sguscia via nella notte. Fuori continua a piovere. Bisogna rassegnarsi, l’estate è davvero finita.
Un piccolo gioiello questo racconto. Brava Ottavia
Grazie infinite, Mimma.