La gamba di Arianna ha iniziato a molleggiare e io mi sono sciolto. Un piacere simile a quello che provavo quando mi addormentavo con i capelli di mia madre tra le mani.
Lo sentivo sul dorso delle orecchie. Mia sorella stava ripetendo la parafrasi del sesto capitolo dei Promessi Sposi. Il suo tono era piano, il ritmo implacabile da mangianastri. Occhi bassi sul quaderno, blaterava cose sulla trama, considerazioni sui personaggi e intenzioni dell’autore, a metà tra zelo e terrore che alla prima esitazione qualcuno potesse arrestarla e farla diventare una collaborazionista della Stasi. Io stavo facendo l’analisi logica di alcune frasi che la maestra ci aveva dettato la mattina. La gamba di Arianna tremava, un dondolio regolare che mi stordiva. Ho sentito la sua pancia agitarsi sotto il maglione, la sua mano caffè e latte poggiarsi sulla mia coscia destra, la sua bocca avvicinarsi al mio orecchio con quell’alito d’aglio e la peluria. Su Arianna ci stavo comodo, le sue chiappe da quindicenne strabordavano la sedia, nei suoi jeans Levi’s ci potevi infilare un quintale di olive.
Aveva salito le sei rampe di scale e quando era arrivata in cima aveva il fiatone e ci mancava poco che infartasse, poi mi si era seduta accanto e per un po’ mi aveva guardato studiare. Quand’ero alla sesta frase e la penombra della stanza mi affaticava gli occhi, ha battuto il palmo della mano sulla sua coscia e io ci sono salito.
Mi sono bloccato sulla frase ‘Ho comprato un tavolo di legno’. «Cos’è ’di legno’?», le ho chiesto, proprio mentre la sua mano abbassava la cerniera e l’indice e il medio toccavano le mutande. Complemento di materia, ha detto. Le due dita strusciavano su e giù, la sua bocca era vicina al mio lobo. Sussurrava qualcosa che non capivo. Lo ha ripetuto e ho capito: «Ti amo. Ti amo». E quelle non erano tanto parole quanto lingue di fuoco.
A quel punto mia sorella sapeva tutto della lite tra Don Rodrigo e Fra Cristoforo ed era passata a matematica, o geometria, problemi comunque. Non aveva mai staccato gli occhi dal tavolo, ma non potevo esserne sicuro perché non l’avevo più guardata da quando la mia storia con Arianna si era fatta più seria. Avevo nove anni e lei era la mia prima donna, capirete se ero un po’ preso. Intanto sembrava contenta di non andare oltre le mutande. È andata avanti così fino a che non ho attaccato con Storia. Ogni tanto staccava la mano dalla patta e la portava sulla coscia. Due volte mi ha baciato la guancia.
«Domani venite a vedere Avanti tutta da me?» ha chiesto Arianna.
Mia sorella non le ha risposto. Io ero ancora pietrificato, ma ho biascicato un Può darsi.
«Dopo giochiamo a nascondino», ha detto lei.
«Allora ok».
Il nascondino era un incentivo, se ci infilava pure un pacchetto di gomme, ancora meglio.
L’aveva sentita anche Giada, ma era con me che Arianna parlava e per farlo ha abbandonato quel patto di intimità che i suoi ‘Ti amo’ avevano siglato. Quell’uscita ha insabbiato ancora di più le sue azioni, ha detto ‘Guarda, è tutto così normale che ora ti invito da me per domani’. Ma si trattava di un’illusione e non c’era nulla di obliterato. In un certo senso a me le sue strofinate piacevano, era un gusto nuovo, anche se un po’ mi vergognavo. Doveva amarmi parecchio ora che ci pensavo, perché quando andavo dalle zie al rione mi scarrozzava in giro sulla sua Graziella celeste metallizzato e mi regalava delle gomme alla menta grandi come palle da bowling che ti ci slogavi la mascella.
Mia madre era uscita, non sapevo per dove, forse una riunione della Democrazia Cristiana. Papà dormiva. Era sabato ma aveva lavorato mezza giornata e dopo era andato dritto a dormire.
L’indifferenza di mia sorella un po’ mi feriva. Se invece se n’era accorta allora era solo gelosa delle attenzioni che Arianna aveva per me. Fuori si stava facendo buio, Giada si è alzata per accendere la luce, ha spostato l’aria passando dietro di me ed è stato così che mi sono accorto che cominciava a fare freddo. I miei jeans erano sbottonati, ma la manica sinistra del giubbotto di Arianna copriva quasi tutto. Giada se n’è tornata al suo posto a capotavola e una pioggia di clacson ha rotto la quiete nella stanza.
La luce del corridoio s’è accesa, pochi secondi dopo è apparso mio padre, scapigliato e assonnato. È andato subito nel cucinino dove ha armeggiato tra gli scaffali. Arianna ha poggiato le mani sul tavolo, io ho tirato su la cerniera. Mio padre è uscito dal cucinino con mezza banana in bocca. Indossava un maglione e il pantalone di velluto.
«Ti sei coricato tutto vestito?» gli ho chiesto.
«Più della fame poté il sonno» ha risposto.
«Contento tu».
«Mamma non c’è?»
«È uscita».
«Dov’è andata?»
«Non so, è passato Alberto».
«Ah, vedi».
Il giorno dopo sono andato da lei per guardare una puntata registrata di Avanti tutta. La sua casa prendeva tutto un angolo della piazza, era di quelle signorili, alte, che sembrava star lì solo per mettere in imbarazzo le case accanto, quelle dagli intonaci incerti e le porte spizzicate dagli elementi. Cornici in pietra e fregi abbellivano il portone e le finestre. Appena dentro c’era un cortile, lo studio del padre e il giardino intorno al quale si estendeva la casa come a un chiostro. Ti ci potevi affacciare dalla terrazza fuori la cucina.
Avanti Tutta mi annoiava molto e ho dovuto fare uno sforzo per non soccombere e abbattermi del tutto. Ma con Cacao Meravigliao e le ballerine brasiliane qualcosa in me si è mosso, un sorriso mi si è aperto negli occhi.
«Come sai che non dirò niente a nessuno?» ho chiesto ad Arianna, mentre mi versava un bicchiere di aranciata.
«Cosa?»
«Di noi due, come lo sai?»
«Che vuoi dire?»
«Hai la memoria di un pesce rosso».
«Ah, quello. Perché, vuoi dirlo a qualcuno?»
«Non lo so, ci sto pensando».
Lei non ha detto niente, ha avvitato il tappo alla bottiglia, la sua faccia si è fatta cupa ed è diventata ancora più brutta.
«Forse è meglio che te ne vai» ha detto. «Devo studiare».
«Credo che dovresti darmi qualcosa in cambio».
«Vuoi altre gomme?»
«Diciamo 20000 lire a settimana».
«Dai, smettila».
«25000 lire, e due pacchi di Big Bubble».
«Non se ne parla».
«Se accetti, puoi farlo ogni volta che vuoi».
«Io non ce li ho quei soldi».
«Ma se avete una cucina che è un appartamento».
«Mio padre mi dà diecimila lire a settimana».
«Secondo me hai un salvadanaio grande così».
«Quello è per la gita».
«Tanto non ci vai, te ne staresti sola per tutto il tempo. È vero quello che mi hai detto ieri?»
«Cosa?»
«Che mi ami».
«Non devi dirlo a nessuno».
«Grazie» ho detto, e ho bevuto. Dopo mi sentivo bello pieno e non per l’aranciata.
Siamo usciti in piazza sulla sua Graziella, abbiamo vagato intorno al palo della luce e nel vicolo San Tommaso. A un certo punto ci è venuta voglia di zucchero e abbiamo fatto un pit stop al tabacchino. La proprietaria la chiamavano La Zanzara, non so perché, forse per la voce stridula. Era mezza sorda e dovevi indicarle quello che volevi. Oppure dovevi ripetere la frase ‘Big Bubble alla panna e fragola’ tre volte prima che si girasse e prendesse il pacchetto giusto dallo scaffale. In più balbettava, nello sforzo la faccia si contorceva e da rosa diventava rossa; a volte mi divertivo a scegliere qualcosa che costava du-due-ce-cento lire solo per gustarmi lo spettacolo. Quella donna viveva lì dietro, letteralmente, alla sue spalle c’era una stanza con la TV e il divano, e una porta per la cucina. Mentre Arianna era dentro io l’aspettavo seduto sul portapacchi, a un certo punto mi sono piegato in avanti e ho annusato la sella: peto ammuffito.
Arianna è uscita, mi ha passato il pacchetto di gomme e un Tronky. «Grazie» ho detto, ma una parte di me non avrebbe voluto ringraziarla perché me l’ero guadagnato e mi spettava. Abbiamo fatto il giro di tutto il rione fin nelle parti più anonime, tristemente rimosse dal carisma proprio della piazza. Oltre le case a rustico e le strade sterrate non ci sporgevamo mai, né superavamo il passaggio a livello che per noi era la frontiera per la città e le sue auto, un’eredità futura di mattoni e lamiere cui guardavamo con sospetto.
«Stai attenta alle buche» le ho gridato, «mi stai affettando le chiappe».
«Scusa», ha detto lei, mentre spingeva sui pedali con i suoi cosciotti.
«Stiamo insieme io e te?» le ho chiesto mentre sbandava davanti alla porta dell’avvocato Piccinnonno e le mie suole strusciavano l’asfalto.
«Cosa? Quante volte te lo devo dire che quando guido non voglio che mi distrai».
«Se siamo una coppia, dico».
«In un certo senso».
«Non hai amici della tua età?»
«No».
«È perché hai sempre il fiatone?»
«Non fare lo stronzo».
A me quella parola è parsa un complimento. I capelli mi si sono rizzati, ho sentito gli zigomi rinascere e io non ero più un bimbo che fa l’analisi logica ma un uomo tutto fatto. Col buio l’umidità è scesa sulle nostre nuche e sulle case che ora si intuivano appena, avviluppate in una foschia bianca che odorava di camino. Se ci ripenso, era quella la cifra mesta del nostro inverno.
«Torniamo in piazza per vedere se è arrivato qualcuno» ho detto.
«Ok, scendi, che giriamo».
Arianna ha frenato, la bici si è fermata, io sono sceso, ho aspettato che Arianna si girasse su se stessa, aveva la fronte sudata, la frangetta dei capelli corti spalmata sopra, gli occhiali appannati.
Dall’inizio del nostro accordo avevo guadagnato cinquanta mila lire. Le ho fatto uno sconto alla terza settimana quando mi ha allungato la dieci e ha detto che ero un po’ cattivo a chiederle dei soldi. «Non è vero», ho risposto, «È peggio se lo dico a mia madre. Quella ti taglia le mani. E poi lo dice a tua madre. E tuo padre perde il posto in politica».
In quelle settimane Arianna è tornata da me tre volte e mi ha aiutato a fare i compiti. Giada era sempre lì ma sarebbe potuta essere su Marte.
Mi ha detto ancora che mi amava e poi per la prima volta mi ha chiesto se mi piaceva. Ho bisbigliato di sì, che mi piaceva. Se non sbaglio stavo facendo Geografia. «Quanto ti piace?» mi ha chiesto lei.
«Tanto» ho detto.
Giù in strada i clacson ululavano perché qualcuno parcheggiava sempre davanti alla Casa del Salame e bloccava il traffico. Io ho ripetuto «Tanto», ma più tra me e me che lì fuori nel mondo, e poi ho detto «Il Tevere è il fiume che attraversa Roma».
Un giorno ero dalle zie e la zia Anastasia mi stava preparando una fetta di pane e pomodoro.
«La vuoi la buccia?» mi ha chiesto.
Io stavo guardando il fuoco e non le ho risposto.
«Mirco?»
«Eh?»
«Il pomodoro lo lascio?»
«No, solo i semi».
Poi ha aggiunto il sale grosso e ha condito con un mezzo bicchiere d’olio. Ho dato un morso e mi sono sentito meglio.
«Oggi non vai a giocare?»
«Sì, dopo esco».
«Perché non vai a messa?»
«Non mi va».
«Sei fai il bravo bambino, Gesù ti vuole bene».
«Pure lui».
«Lo vuoi un po’ di formaggio?»
«No, questo basta».
«Ti sei messo a fare la dieta anche tu?»
Quando sono uscito la piazza era vuota, già le cinque e non c’era nessuno.
Presto sono arrivate le prime vecchiette per la messa delle cinque e mezza. Neanche Arianna s’era vista. Ho pensato di suonare al citofono, ma ho cambiato idea. Il giorno prima avevamo giocato a nascondino tutto il pomeriggio. Io m’ero nascosto sulla terrazza di Commare Lucia e nessuno mi aveva beccato. Alla fine ero uscito e avevo toccato tana. Arianna invece l’avevano sgamata subito, non le andava di fare strada per i posti strambi e si nascondeva sempre lì vicino, dietro a una macchina o all’angolo di una casa. «Guarda che ti vedo» le gridava Rocco, «mica ti confondi con le macchie di umidità».
Mi sono seduto sulla panchina sotto ai manifesti dei morti. Le vecchiette che passavano salutavano con un cenno e io dicevo «Buonasera a signoria», come avevo sentito fare la zia. La piazza era avvolta da una luce gialla e l’aria era così bagnata che la potevi bere. Mi sono messo a leggere i manifesti funebri: ‘Si dispensa dalle visite’, non capivo cosa voleva dire, mi sembrava logico che uno si aspettasse visite per un’occasione del genere. Il manifesto accanto era del Sindaco, iniziava con ‘Si informa che’ bello grande in alto, e poi parole piccole piccole sotto. Alla fine mi sono stancato di aspettare e me ne sono tornato a casa a piedi.
Qualche mese dopo i miei si sono separati, io e mamma abbiamo cambiato casa, ma i compiti a volte li facevo ancora lì con Giada. Arianna però ha smesso di venire. Doveva aver finito i risparmi. Anch’io ho smesso di andare al rione. Quella ormai era una vita vecchia: le gomme, il nascondino, la Graziella, il pane col pomodoro, tutto cancellato con una botta di spugna dal divorzio dei miei. Ma non tanto per una legge imposta, quanto perché una mano invisibile e pesante si era poggiata su di noi e ci impediva di essere chi eravamo sempre stati. E poi ormai avevo una casa nuova, anche se era fredda e irrilevante, abitudini nuove, e sarebbe stato davvero difficile conciliare tutto con il calore stinto delle vecchie cose e dei vecchi amici.
Due anni dopo la macchina della sorella di Arianna è andata a finire contro un guard rail, o forse era un albero. Lei è rimasta in coma un sacco di tempo e quando poi si è svegliata non parlava né camminava più. Storia triste, era stata una tipa molto carina e simpatica, così diversa dalla sorella.
L’anno scorso ho ricevuto la prima lettera di Arianna. Era natale. Si trattava di poche righe oneste, quasi commoventi, forse perché sembravano scritte da una bambina. Mi faceva gli auguri e mi chiedeva scusa per quello che aveva fatto. È stato spiazzante, devo dire. Non so come ci si comporta davanti a delle scuse che non si aspettano. Se la incontrassi oggi non saprei davvero che dirle. Forse le chiederei se le piacciono ancora le Big Bubble.