Mi svegliano le urla dei lupi durante l’attività muscolare.
Esco dal sacco a pelo e sento quella stanchezza che solo dormire male lascia nel corpo. Nino ha preparato il caffè, ci metto due cucchiaini di zucchero e bevo.
Fa caldo, i lupi hanno già fatto colazione e vanno a vestirsi per l’attività della mattina. Io e Nino dobbiamo rimanere al campo per raccogliere la legna, montare i faretti e la scenografia, preparare i panini da portare sopra a pranzo e poi, se ci va, scendere in paese con la macchina a comprare un nuovo pacco di filtri.
Tutti cercano di essere amici dei lupi, io no, in realtà mi fanno paura. Ho il terrore che ne sappiamo più di me.
Nino indossa una felpa macchiata di giallo sulla spalla destra, i pantaloni cachi corti, calze che superano di poco la caviglia e grosse scarpe da trekking: grosso modo, tutti sono vestiti così. Foulard al collo e qualcuno anche il cappellino verde. Io mi lavo e mi cambio, mi ficco nel sacco a pelo, mi tolgo le mutande, le infilo nella federa della roba sporca e mi rimetto quelle pulite, che sanno ancora di casa. Mi distinguo solo per la presenza delle vans: odio le scarpe da trekking, rendono ogni passo pesante.
I lupi partono, con Akela, Baloo e Ferao, noi li salutiamo e Nino inizia a montare subito i faretti. Io mi stendo sulla panca di legno e inizio a rollare e fumare una sigaretta. Sento Nino che traffica con la cassetta degli attrezzi, cacciaviti e roba del genere, e bestemmia per qualcosa che non trova, forse una vite. Il cielo è limpido e ora inizia a fare davvero caldo con il sole che scende forte. Mi tolgo la felpa, vecchia, della dechatlon e rimango con la magliettina bianca. Nino ha montato il primo faretto, se la cava benissimo da solo, penso. Finisco qui e andiamo a fare legna, mi fa. La sua voce sembra stanca. Annuisco e mi ristendo sulla panca di legno. Qui non si può mai davvero essere riposato, anche dopo 12 ore di sonno.
Forse mi addormento per qualche minuto e mi sembra di annegare nella montagna. Mi risveglio steso sulla panca. Nino non c’è. Lo chiamo, non risponde. Entro nella struttura per vedere se sta trafficando con uno dei suoi mille aggeggi. La stanza dei lupi è tappezzata di sacchi a pelo, di ogni colore e forma, ricordano tante piccole bare, ma elimino subito questa immagine dalla mia testa. Nino, chiamo, Nino. Forse è andato a fare legna, mi dico.
Esco, ho un forte dolore alla testa. Faccio dei respiri profondi e ricomincio a cercare. Mi allontano nella foresta, dove abbiamo fatto legna, e cerco con lo sguardo un movimento. Un ragazzino, quando eravamo ancora piccoli, ci disse che, nel bosco, era finita la legna e non riusciva a trovarne più. Ridemmo come pazzi. Di stranezze nei campi siamo pieni.
Sento un brivido di paura, ritorna con prepotenza quella vecchia storia del capo che, a un campo, era impazzito, poi scomparso e, durante una notte, aveva portato via un lupo. Dopo due giorni erano stati trovati morti nella foresta. Da piccoli, nelle tende, qualcuno diceva che questo fantasma pazzo ci seguisse a ogni campo e che dovevamo stare attenti a riconoscere bene le persone con cui parlavamo. Da bambino, soprattutto le prime volte, mi fece paura, ma nel tempo è diventata quasi una barzelletta.
Mi ripeto di non preoccuparmi, che magari mi sono addormentato troppo a lungo. Il luogo in cui i lupi devono fare attività è lontano due chilometri, basta seguire il sentiero per arrivare. Così inizio a salire e mi dico che di certo beccherò Nino mentre scende.
Fatti forse seicento metri, dopo la prima curva, vedo un lupo seduto per terra. Mi avvicino di corsa a lui. Indossa una piccola maglietta bianca, i pantaloncini cachi macchiati già di primo mattino e il foulard e le scarpe da trekking forse due numeri troppo grandi, così poi le usano per almeno un paio d’anni ci dicono le madri, ma non capiscono che ai piedi fa male.
E tu che fai qua? gli chiedo. Qui dove? Perché non sei con gli altri sopra? gli ripeto. Gli altri chi? mi fa. Come gli altri chi? Gli altri lupi, e Akela, Baloo, Ferao. Non ci sono altri, mi risponde. Hai visto Nino passare da qui? Scuote la testa.
Certe volte i lupi vivono in un costante gioco.
Su forza saliamo dai, gli dico. Guarda che su non c’è nulla. Ci sono gli altri, gli dico. Scuote la testa. Guarda che sopra c’è solo il mare. Il mare? Sì, il mare. Mi metto a ridere, forse in modo isterico. Gli prendo la mano e continuiamo a salire.
Io voglio correre, ma il lupo ha le gambe corte e cammina piano come se non gli importasse nulla di quello che succede. Non riesco a ricordarmi il suo nome, sono così tanti e tutti così simili tra loro. Nino non scende e mi sembra strano che Akela o Baloo o Ferao abbiano lasciato indietro un lupo, forse è scappato nel mezzo dell’attività, penso.
Hai visto? mi dice. Io lascio la mano del lupo e la porto alla bocca, non so perchè ma sento il vomito pronto a uscire. C’è un mare, una distesa d’acqua di cui non riesco a vedere la fine. Com’è possibile? mi avvicino per toccare l’acqua, la sua inconsistenza, per un secondo spero di essermi calato qualcosa e di essermene totalmente dimenticato. L’acqua è vera e profonda e potrei farmi un bagno, in montagna a mille e trecento metri d’altezza. Non è possibile, qui c’era uno spiazzo e qui dovrebbero esserci ventisette lupi che giocano e fanno chiasso e si buttano a terra e si sporcano e parlano.
Sento un rumore e vedo che il lupo si è messo a correre come un pazzo, giù per il sentiero, e corre, corre senza guardarsi indietro. Allora lancio un’ultima occhiata al mare e mi butto anche io dietro. La strada che prima era in salita ora è in discesa e le gambe iniziano ad andare da sole, senza che io le controlli, e si piegano e si allungano e si poggiano sui muscoli e le vans rispondono bene al contatto con la terra ricoperta di foglie secche e rametti e sassi. Il lupo ora sembra fluttuare, non poggia più i piedi a terra, corre, corre veloce e riesco a vedere solo la sua testolina che si sposta, come in un vecchio gioco con una pessima grafica, e va velocissimo, cosa fisicamente impossibile con quelle gambe minuscole.
Poi si ferma di botto, senza preavviso; io sono costretto a far forza sulle gambe per non finire a terra e penso che potrebbero spezzarsi per la forza con cui mi sono fermato. Il lupo non ha il fiatone, mentre io non parlo per qualche secondo. Lui mi guarda e dai suoi occhi sembra che vada tutto bene.
Poggio le mani sulle gambe. Perché scappi? non mi risponde. Dove sono gli altri eh? Dove sono? gli ripeto con la voce che sembra spezzarsi. Non ci sono altri, mi dice. Ma la vuoi finire di scherzare? gli dico: lui abbassa subito gli occhi e mi pento del tono della mia voce. Akela, Baloo, Ferao e gli altri dove sono finiti? Non lo so, mi risponde. Ma eri con loro giusto? No, risponde. Come no? continuo. Io non conosco nessun altro bambino, conosco solo te. Mi guarda fisso negli occhi e non riesco proprio a credere che sia una bugia. Ma siamo qui da cinque giorni, ricordi? Il pullman e il tema su Kung fu panda e la doccia fredda e i giochi d’acqua, hai dimenticato tutto? No, io non ho dimenticato nulla, forse tu hai dimenticato. Cosa? La verità. Che verità? Siamo qui da un sacco di tempo. Chi? Noi, io e te. Mi accorgo che più sopra si scorge il sentiero. Prendo per mano il lupo e cerco di ricordare se uno dei lupi avesse qualche problema di memoria o di personalità, di solito queste cose vanno dette prima del campo. Ma non riesco a ricordare.
Scendiamo fino alla struttura. Non sembra muoversi nulla e anche il faretto che Nino ha montato è sparito. Entro dentro la stanza dei lupi e il tappeto di sacchi a pelo è sparito e ci sono solo il pavimento freddo, due zaini vecchi e logori e una sottiletta chiusa male.
Esco e il lupo è seduto sulla panca di legno e guarda fisso le foglie a terra e una minuscola talpa che appare e ricompare. Mi siedo di fianco a lui e metto la testa tra le mani, vorrei urlare e piangere, ma non posso farlo davanti a un lupo, non dobbiamo mai essere fragili. È contagiosa come sensazione. Mi mette una mano dietro la schiena e mi dà delle piccole pacche, Gesù è la stessa identica cosa che faccio quando un lupetto piange per la nostalgia di casa. E allora piango, non in modo vistoso, ma piango perché non riconosco la verità e perché ora i ricordi si confondono e si uniscono e ne creano di nuovi e non riesco più a risalire alla versione primaria, quella reale. Anche la macchina di Nino è sparita, non c’è più nulla. Solo noi.
Mi metto a correre ancora, salgo per rivedere con i miei occhi il mare, lascio il lupo da solo, ma non mi sembra spaventato, gioca con dei rami. Il mare c’è e gli altri no, rimango seduto su quella specie di riva a lungo e penso. Non in maniera lineare, ho solo una gigantesca confusione in testa e questa storia del capo pazzo che sparì portando con sé un piccolo lupo che continua a perseguitarmi e ho provato a ricordare con precisione i volti degli altri, di Akela, Baloo, Ferao, Nino e i lupi, ma non riesco più a mettere a fuoco, sembra che tutto lentamente si stia cancellando.
Torno giù, il sole è calato da molto e il mare mi ha rapito sulla montagna. Il lupo è addormentato nella sala che prima era tappezzata. È steso sulla sottiletta, io mi posiziono accanto a lui e chiudo gli occhi.
Mi svegliano le urla dei lupi che fanno risveglio muscolare. Esco dal sacco a pelo e sento quella stanchezza che solo dormire male lascia nel corpo. Nino ha preparato il caffè, ci metto due cucchiaini di zucchero e bevo.
Bel racconto. Complimenti.