Il giorno in cui Luca Carulli sparì per il mondo intero aveva da poco compiuto trent’anni. Si alzò dal letto in tarda mattinata. Barcollava nella stanza, al buio, squassato da conati di vomito e attento a non inciampare nel gatto che gli strusciava ai piedi.
Fece per accendere la luce, ma la luce non si accese.
Sbuffò e, seguito dal gatto, vacillò per le scale del soppalco.
Pigiò l’interruttore della luce, la stanza rimase buia.
«Ma che cazzo…»
Cercò a tentoni il quadro della corrente, ma il contatore sembrava a posto.
Incespicò nel gatto e quasi cadde faccia a terra.
«Cristo santo!»
Incollerito si precipitò verso il balcone a alzare la persiana.
Indietreggiò terrorizzato: davanti a lui si ergeva un muro di pietra.
Lo sfiorò con la mano: era reale.
«Ma che cazzo succede?» strillò.
Prese il muro a pugni, a calci, poi cadde al suolo, stremato. Non riusciva a capire. Non riusciva nemmeno a pensare.
Spinse via il gatto col piede e si tirò su, ancora stordito. Avanzò lento, sfiorò i mobili. Giunto alla porta di casa, esitò ad afferrare la maniglia.
Serrò gli occhi e si fece forza. Strinse il pomello, girò la chiave: la porta era chiusa.
Corse in cucina, seguito dal gatto che continuava a miagolare. Aprì la finestra: davanti a lui solo pietra.
Arretrando scivolò e cadde di schiena. La faccia rivolta al soffitto e gli occhi chiusi, rideva e le lacrime gli scivolavano sul viso. Il gatto si strusciava addosso: lo spazzò via con una manata.
«Sto sognando. È solo un sogno…»
Si tirò su a fatica, ma subito scivolò e crollò sul frigorifero.
Il pavimento era bagnato.
Aprì il freezer: la carne impacchettata si stava scongelando.
Veloce salì sul soppalco. Afferrò il cellulare dal comodino: era scarico.
Provò a metterlo in carica, ma non c’era corrente.
Fracassò al suolo il cellulare e si lasciò cadere sul letto.
Udì a malapena il miagolio del gatto. Poi chiuse gli occhi e si rannicchiò tra le lenzuola.
Dopo ore, Luca era steso sul pavimento del soggiorno, la canotta fradicia di sudore; ai suoi piedi giacevano un martello spaccato e un piede di porco.
Lentamente, spossato, si tirò su e andò in bagno. Appena aprì il rubinetto si udì solo un gorgoglio: non uscì acqua.
Ai piedi del frigo c’erano sei bottiglie d’acqua, al suo interno tre bottiglie di vino e del latte andato a male.
Diede un sorso a una bottiglia d’acqua, poi prese il vino e tornò nel soggiorno.
Era sera, o almeno così credeva Luca, visto che non aveva alcun orologio e lì dentro non filtrava un filo di luce. Sedeva sul divano in soggiorno, la bottiglia di vino era quasi vuota, ai suoi piedi c’era un piatto sporco con dentro i residui di una bistecca che il gatto leccava.
Luca non faceva che fissare il televisore spento, al buio, incapace di definire anche un solo pensiero.
Aveva passato tutto il pomeriggio a picchiare col piede di porco contro le mura di casa, a chiamare aiuto; nessuno lo aveva udito.
Ripensandoci, gli venne da ridere.
Come poteva solo immaginare di restare a lungo lì? Era uno scherzo, sì, forse architettato da Sara, visto che la sera prima avevano litigato. Oppure era stata Lia, la sua amante, stanca di doverlo dividere con Sara. O ancora quel coglione di Livio! Un modo per fargliela pagare per non averlo coinvolto nel suo ultimo cortometraggio.
Uno scherzo, non poteva essere altrimenti. Presto qualcuno l’avrebbe tirato fuori e lui si sarebbe sforzato di ridere: nessuna scenata, no, sarebbe stato al gioco. In fondo era davvero un bel gioco, uno scherzo veramente riuscito, non c’era che dire.
La sera successiva, Luca mangiava le salsicce seduto sul divano, al buio.
A ogni rumore, a ogni crepitio delle mura, a ogni sussurro dell’aria, si voltava di scatto: ma non c’era nessuno.
Finito di cenare restò seduto sul divano a bere la seconda bottiglia di vino e a fumare. Restavano solo un’altra bottiglia, di tabacco un solo pacchetto, e non sapeva quanti filtri e cartine. Ma non importava. Domani qualcuno avrebbe posto fine a quello scherzo, sì. Era già il secondo giorno, farlo durare di più sarebbe stato di cattivo gusto.
Rimpiangeva solo di non aver mai dato ascolto a Sara: gli diceva che avrebbe dovuto leggere di più, che un regista dovrebbe leggere, non solo guardare film.
Adesso gli sarebbe tanto piaciuto avere qualcosa da leggere, non solo le sceneggiature rilette durante tutta la giornata, o ancora le lettere di Sara, di Lia, di altre ragazze di cui aveva del tutto rimosso il nome e il ricordo. Tanto domani sarebbe finito tutto.
Si rannicchiò sul divano con questo pensiero, appena il gatto gli balzò accanto lo strinse a sé. Ma non riusciva a dormire. Non sapeva nemmeno che ora fosse. Non esistevano più la luce né il tempo. Continuava a stare immobile, la sua mano che meccanicamente accarezzava il gatto.
«Però sono stati divertenti, vero?» farfugliò all’orecchio del micio. «Nemmeno io avrei mai pensato a uno scherzo simile…»
Portò le mani sotto al capo e chiuse gli occhi.
Svegliatosi, senza sapere se fosse giorno o ancora notte, si alzò dal divano e, allegro, si diresse alla porta.
Strinse la maniglia, questa non si mosse. La porta era chiusa. Niente sembrava cambiato da quando si era addormentato.
Andò in bagno e qui si tappò il naso per il fetore.
Il water era pieno di escrementi e di urina, lo aveva dimenticato, così come aveva scordato che non c’era acqua. Ormai era il terzo giorno che viveva così: ma erano davvero tre giorni?
Andò di corpo tenendo le natiche scostate dalla tazza, la mano davanti alla bocca e al naso per non respirare il miasma.
Notò che la carta igienica era quasi finita e scoppiò a ridere. Rideva ancora quando raggiunse lo specchio: come se al buio potesse vedersi…
Era il secondo giorno che non si lavava. Il primo giorno aveva utilizzato mezza bottiglia d’acqua, l’altra metà l’aveva riversata in un secchio e usata per svuotare il water. Adesso ne restavano quattro, non le usò neppure per lavarsi i denti.
Stanco, afferrò il piede di porco e ricominciò a picchiare contro la parete.
Venivano giù solo piccole briciole di gesso, insignificanti e minuscole parti di quel muro che lo separava dal mondo.
«Cristo, ma qualcuno mi sente? Siete tutti morti? Cazzo!»
O non c’era nessuno ad ascoltarlo, o la sua voce nemmeno esisteva, perché era impossibile che non un’anima viva udisse le sue grida e quel casino, che alcun rumore giungesse al di là della parete.
Lasciò cadere al suolo il piede di porco e raggiunse il divano, si strinse la faccia fra le mani, piangeva e rideva.
«Adesso basta, basta davvero, sono stanco…» sussurrò.
Afferrò da terra la sbarra di ferro e la scagliò contro la porta di casa.
«Avete sentito?» strillò.
Ma non una voce. Non un rumore. Nel buio luccicavano solo gli occhi del gatto, fissi su di lui.
Erano passati ormai sei giorni, li aveva segnati con un giravite sul muro del soggiorno.
Attrezzi da lavoro piegati giacevano al suolo fra piccolissime pietre; le mattonelle erano coperte di polvere e di gesso, ovunque c’erano piatti sporchi e mozziconi di sigarette. Dal bagno il tanfo di escrementi e di urina si era diffuso nell’intero appartamento, rendendo l’aria irrespirabile. Luca non poteva più definire il trascorrere dei giorni con chiarezza, come aveva fatto fino a un giorno prima, regolandosi grazie al proprio intestino. Ormai andava di corpo più volte, liquido. Persino il gatto aveva iniziato a fare i propri bisogni in giro.
La carne era finita, restavano scatolette di tonno, di fagioli e di piselli, pacchi di pasta e passate di pomodoro.
Il vino era terminato da giorni e il latte, Luca, lo aveva bevuto e vomitato la notte prima.
Restavano tre bottiglie d’acqua. Iniziò a razionare il cibo.
«Volete vedere quanto riesco a resistere, eh?»
Il tabacco era quasi finito, di cartine non ne aveva più. Sbriciolava i mozziconi e li fumava nei fogli ricavati dalle sceneggiature: gli stessi fogli con cui si nettava il sedere dopo i propri bisogni, assieme alle lettere d’amore di Sara, di Lia, di donne che aveva dimenticato e adesso, in virtù della situazione, del suo andare di corpo, tornava a ricordare.
Ce ne stava una di Cinzia, la sua lettera d’addio prima del tentato suicidio, poi una di Vera, una ragazzina diciannovenne, più giovane di lui di oltre dieci anni.
Alcune le aveva rilette con attenzione: cercava di capire se davvero fosse stato lui a portare all’anoressia Amanda perché era andato a letto con la sorella; o se davvero lui, proprio lui, fosse stato l’uomo che aveva spinto Tiziana a trasferirsi a Londra.
Salì le scale del soppalco. Tirò fuori dall’armadio il suo vecchio smoking. Lo fissò come se al mondo non esistesse altro, poi lo indossò.
Davanti allo specchio che non poteva vedere sorrideva, girava su se stesso.
«E adesso sul tappeto rosso di Cannes, ecco il grande Luca Carulli!»
Spalancò le braccia, gli occhi lucenti al soffitto, ovunque il fragore di applausi e voci che lo acclamavano.
Ogni rumore sfumò lentamente.
Il gatto lo fissava in cima alla scala. Non c’era che lui.
L’ottavo giorno, Luca era seduto sul pavimento della camera da letto, fra vestiti, scartoffie e mozziconi di sigarette.
Afferrò una lettera. Era di Sara. Non gli sembrava di averla mai letta.
“Lo so che non mi ami, almeno non quanto ti amo io, ma voglio dirti che vorrei passare tutta la vita con te. Riuscire a farmi amare. Averti al mio fianco perché tu sia per me marito, il padre dei miei bambini.
Io credo in te, Luca, e so che prima o poi riuscirai a realizzare il tuo sogno: Hollywood.
Spero solo di poter essere sempre con te, di gioire delle tue vittorie, di esserti compagna e sposa fino alla vecchiaia, e alla morte.
Lo so, sono stupida, ma ti amo così tanto.
La tua Sara”.
Era datata ventidue maggio, quasi un mese prima. Lui allora era a scopare con una comparsa a cui aveva dato una parte in un teaser: le aveva giurato che sarebbe diventato un film, sapeva di mentire. Sara intanto gli stava scrivendo quella lettera?
La lasciò cadere al suolo e ne raccolse un’altra, era di Lia, scritta due giorni prima che iniziasse quell’incubo.
“Lo so che non la lascerai mai, e se anche tu dovessi farlo, sarebbe per stare con un’altra, non certo con me: magari una delle tante attrici che ti fai, non certo una che lavora come commessa.
E io stupida che ti amo! Cretina che ancora spero.
Lo vuoi capire che sto male? Nemmeno so perché ti scrivo questa cazzo di lettera, è una cosa da bambine!
Forse è solo un modo per capire che sono una cretina. Magari una speranza perché tu possa vedermi, amarmi, deciderti.
Io non lo so più, Luca, so solo che non mi basta averti a metà. Vorrei solo che tu lo capissi e mi scegliessi”.
Piegò con cura la lettera e la sistemò accanto a quella di Sara. Poi ne prese ancora un’altra, era di Livio: gliel’aveva scritta dopo che lui l’aveva buttato fuori da un set.
“Sei solo un montato, fanatico pezzo di merda!
Neppure ti ricordi di chi ti ha dato i primi contatti. Te ne fotti! Ecco cosa.
E pensare che sai del mio divorzio con Amanda, degli alimenti che le devo passare, dei miei due figli che lei non mi permette di vedere.
Ma che cazzo hai al posto del cuore, il ghiaccio?
Fottiti, Luca! Spero davvero che tu muoia”.
La lettera gli scivolò di mano. Sorrideva, sorrideva e piangeva al tempo stesso.
Si tirò su a fatica, barcollò.
Con una manata colpì il computer, la scrivania si ribaltò e il PC precipitò al di là della ringhiera del soppalco e si fracassò sul pavimento del soggiorno.
«Il grande Luca Carulli!» borbottò in falsetto, girando su se stesso e ancora ridendo.
Poi a un tratto un rumore.
Corse in fretta lungo le scale, raggiunse la porta e la prese a pugni, sempre più forte.
«Ehi, mi senti? Io sono qui! Io sono qui!»
Quei passi si fermarono. La faccia di Luca restò attaccata alla porta gelida.
I passi, poi, si allontanarono lentamente, li udì scendere le scale.
Picchiò il pugno contro la porta.
«Perché?» strillò.
Alzò lo sguardo a fatica e vide il suo gatto.
Gli lanciò contro un cacciavite e lui guizzò via.
Si rannicchiò al suolo stremato.
Quello stesso giorno, Luca accese un fuoco nel soggiorno, all’interno di un secchio di metallo. Lo alimentava con le sceneggiature da lui lette e rilette, con le lettere di Sara, di Lia, di tutte le donne che ancora ricordava solo per masturbarsi ore e ore, cercando in quelle parole un profumo, la sensazione della carne, la presenza di un’altra vita.
Fissava la fiamma ardere sotto la pentola in cui bolliva l’acqua per la pasta. Non era rimasto altro in casa. Alla vista del suo gatto che mangiava le bustine e i croccantini quasi provò invidia.
«Micio micio, cosa mangi?»
Il gatto lo guardò di sottecchi e poi guizzò via, mentre Luca rideva, gli occhi fissi sulle fiammate che formavano sulle pareti ombre spaventose.
«Ci hanno lasciati soli, eh? Ma noi siamo forti. Siamo forti!»
Luca smise di segnare i giorni alle pareti, c’erano solo simboli informi.
Di tabacco da fumare non ce n’era più. D’acqua restava mezza bottiglia. La pasta era quasi finita.
Se ne stava nel soggiorno, al buio, senza sapere se fosse notte o giorno, circondato da piatti sporchi, escrementi suoi e del gatto, un tanfo che lui ormai neppure sentiva.
Per ore fissava il vuoto, alcune volte si masturbava velocemente, altre volte restava a occhi chiusi, nella speranza che il sonno cancellasse l’immobilità del tempo.
Alimentava il fuoco nel secchio per cuocere un centinaio di grammi di pasta. Di tanto in tanto rivolgeva lo sguardo al gatto.
«Ci ha-hanno la-a-a-sciati-ti-i so-o-oli…» canticchiava continuando a ridere in modo folle, il volto illuminato dalla fiamma che ardeva nel secchio.
Il gatto guizzò via, lui gli gettò contro un martello e continuò a ridere, fino a precipitare al suolo, rigirandosi fra feci e macchie di urina.
Poi all’improvviso si fermò. Lo sguardo rivolto al secchio, la fiamma che lentamente si affievoliva, e lui troppo stanco per alzarsi e alimentarla.
Per un attimo gli parve di non respirare più e chiuse gli occhi, felice. Ma l’aria, putrida, fluiva nei suoi polmoni. Lui era ancora lì, era vivo.
Ormai la pasta era finita. Le ultime lettere di Sara, di Lia e di altre donne le aveva inchiodate al muro. Le fissava di continuo. Non si puliva nemmeno più dopo essere andato in bagno, tanto aveva ben poco da espletare visto quello che mangiava: condivideva bustine e croccantini con il gatto, in casa non c’era altro, e l’acqua era finita da un pezzo. Beveva la propria urina, mentre il gatto leccava i rubinetti in cerca di una goccia d’acqua, stremato quanto Luca, desideroso di andar via da lì tanto che il suo miagolio era diventato ossessivo, una cantilena ridondante che faceva scoppiare Luca in un furioso riso.
«Micio micio, che c’è, non sei felice di stare qui con me?»
Il gatto non gli si avvicinava più. Appena lo vedeva, scappava. Ma Luca, puntualmente, prima di precipitare sul divano o sul letto riusciva ad aggiuntarlo, lo stringeva al petto e gli sussurrava all’orecchio: «Siamo solo io e te… Io e te…»
Aveva cercato di fare mente locale, di capire, di mettere a fuoco.
Da quanti giorni stava lì?
Dieci, venti, trenta?
Era sempre buio. Il cibo era finito. L’aria così irrespirabile da far tossire. Gli prudeva la pelle. Camminava su mobili spaccati, carte bruciate, escrementi e pozze di urina.
Ogni tanto dava un colpo al muro o alla porta e rideva.
«C’è qualcuno? No no, non c’è ne-e-essu-u-no. Nessuno…»
Non un rumore oltre la sua voce e la sua stridula risata.
Aveva bruciato ogni lettera: di Sara, di Lia, di Livio, di chiunque. I suoi vestiti erano pezze con cui si era nettato il sedere. Aveva dato fuoco a mobili, a quadri, fino a rendere l’appartamento un fetido cumulo di cenere.
Ma lui era ancora lì, vivo. Barcollava contro le pareti, tossiva a ogni passo, si grattava la pelle e la barba ispida.
Non mangiava ormai da due giorni. Non riusciva a dormire, la fame lo torturava. Balzava dal divano o dal letto immaginando sugosi pezzi di carne lacerati dai suoi denti, gustosi piatti di pasta ingurgitati con ingordigia, e fiumi di vino gelido che lo dissetavano, il calore di un corpo contro il suo, il profumo di un altro essere umano.
Alcune volte, dormendo, si masturbava strusciandosi contro il materasso e chiamando Sara, Lia, Cinzia. Altre volte piangeva, stringeva forte a sé il gatto e lo accarezzava, lo baciava, senza permettergli di andare via.
«Sara, perdonami…»
Un giorno aprì gli occhi e scattò dal divano.
Il gatto, svegliatosi, si mosse appena, ma lui lo tirò in piedi tenendolo per il collo.
Quello faceva strani versi, soffiava.
Luca gli fracassò la testa contro al muro: in un ultimo atroce, struggente miagolio il gatto smise di muoversi, era solo uno straccio di peli che penzolava.
Un attimo dopo dal secchio di metallo il fuoco ondeggiava nel soggiorno, brillava contro le pareti, e Luca lo fissava intensamente, rigirando il mestolo nella pentola e vedendo le carni del suo gatto abbrustolirsi.
Mangiò per due giorni, a sazietà, e bevve il sangue del gatto. Ma non riusciva a dormire. Ogni volta che chiudeva gli occhi sentiva il miagolio del micio.
Spaccò quel che restava dei mobili. Diede fuoco a tutto. Camminava su tizzoni, respirava legno bruciato, ma sentiva solo il fetore del pelo arso del suo gatto.
Ogni tanto, svegliatosi, lo chiamava. Ma poi crollava a letto, stretto al cuscino e in lacrime.
Quando si risvegliò tastò con la mano il materasso, in cerca del gatto.
Per ore camminò ininterrottamente: saliva e scendeva dal soppalco, andava in cucina e in bagno, si fermava e fissava il vuoto, e subito riprendeva a girovagare, come se percorresse un mondo, quasi ci fosse un posto da raggiungere fra quelle quattro mura.
Non badava più neanche agli escrementi che calpestava. Aveva fame, aveva sete, ma più di ogni cosa soffriva l’assenza di un qualsiasi rumore, di una traccia di vita.
Disegnò un gatto alla parete. Lo accarezzava e gli parlava.
«Non importa, non importa niente. Che restino fuori se proprio ci tengono. Tanto qui ci siamo io e te».
Gli leggeva le ultime lettere che aveva risparmiato, in particolare quelle di Sara: gli sembrava di non averla mai capita come in quei giorni.
Aveva preso dei vestiti da lei lasciati nell’armadio, li aveva imbottiti con dei cuscini e posti sul letto, accanto a lui. Aveva disegnato anche il suo viso e con della stoppa le aveva fatto i capelli.
Trascorreva ore ad accarezzarla, le sorrideva, le parlava.
«Vedrai che saremo felici, te lo prometto…»
Si accasciava su di lei, la stringeva forte e la prendeva: il suo sesso si muoveva con furia, finché la impiastricciava di sperma. Poi lui cadeva su di lei e continuava a stringerla.
«Prima o poi ci riusciremo ad avere un bambino. Te lo giuro. E vedrai quanto sarà bello sentire la sua voce qui in casa. Ti prometto che non andrò mai via. Resteremo per sempre noi tre, qui, insieme».
Ormai non si alzava più dal letto nemmeno per i propri bisogni, sempre più radi visto che non mangiava né beveva da giorni. Le ossa sembravano stracciargli la pelle, aveva gli occhi ridotti a due grotte buie, le labbra spaccate, la pelle raggrinzita.
Cercava continuamente il contatto di Sara, ma a malapena riusciva a sfiorarla, ormai. Chiamava il gatto a ogni ora, ma lui non veniva.
Ridotto a un fuscello, lo stomaco che sembrava accartocciarsi nella sua pancia e il cervello incapace di formulare un unico, solo pensiero sensato, udì dei colpi contro la porta di casa.
Sorrise.
Baciò delicatamente il viso di Sara.
«Amore, dormi, vado io…» sussurrò.
Si lasciò cadere dal letto e, senza rendersene conto, trascinò dietro di sé il fantoccio di Sara. Strisciò fino alle scale e ruzzolò su di esse. Precipitò contro una parete del soggiorno, ma pareva non sentisse più neppure il dolore: rideva, rideva sempre più forte, mentre i colpi al di là della porta aumentavano.
Si trascinò sul pavimento, fra escrementi, pozze di urina e chiazze di vomito. Arrivato alla porta, vicinissimo a quei colpi che adesso avvertiva fin sulle ossa, provò a tirarsi su, senza riuscirci.
Cadde al suolo. Sospirò, chiuse gli occhi e, la risata ormai ridotta a un impercettibile risolino, ci picchiò contro.
«Sei tu, vero?»
Alzò gli occhi.
«Morirò, vero?»
Un solo, unico e ultimo colpo rimbombò da dietro la porta. Poi si udirono dei passi scendere le scale e allontanarsi.
Luca scoppiò a ridere.
Si tirò su a fatica, poggiato al muro, ancora ridendo, ma appena fece un passo capitombolò al suolo.
Si rigirò fra cenere ed escrementi, la sua faccia sporca di feci, così come le labbra spalancate in un’atroce risata.
«Non ti lascerò vincere… non lo farò…»
Strisciò verso il soggiorno.
Scostò via pentole, vestiti, carte date alle fiamme. Sempre più frenetico, terrorizzato, si trascinò a terra, in cerca di qualcosa che non c’era, angosciato da quella consapevolezza che attimo dopo attimo, movimento dopo movimento, prendeva forma dentro di lui.
Con un ultimo zampillo di forza agguantò una pentola e la scagliò contro la porta.
«Sei entrato, vero?» strillò, e un attimo dopo cadde al suolo, tremando, in lacrime, la sua mano che si spingeva sul pavimento, senza raggiungere nulla.
«Li hai portati via, maledetto…»
Si ribaltò su se stesso, con la mano continuò a cercare ovunque attrezzi, ma non ce n’erano più. Persino i piatti erano spariti, e così bicchieri e posate.
Trascinandosi sui gomiti arrivò fino in bagno. Prese a pugni il muro, i suoi occhi rivolti verso lo specchio svanito.
Non trovò nulla, qualsiasi cosa che avrebbe potuto usare per farla finita, per uscire da lì prima di morirci, era svanita.
Avevano portato via tutto: gli avevano portato via tutto.
Neppure una penna, uno spillo, un accendino con cui dare fuoco alla casa.
Dal muro, il gatto sembrava fissarlo con occhi tristi. Lo baciò e lo accarezzò.
«Stai tranquillo, andiamo via… Andiamo via…»
Poi, a fatica, strisciò sulle scale fino a giungere in camera da letto. Con le ultime forze che gli restavano afferrò Sara e la issò sul materasso, per poi tirarsi su a sua volta e precipitare su di lei: la strinse, il respiro ansante contro al viso che lui stesso aveva disegnato.
Aprì la bocca, mentre le accarezzava il volto, ma non riuscì più a dire nulla.
Chiuse gli occhi.
Per un istante gli parve di udire la porta aprirsi, ma non si mosse: restò lì, immobile, abbracciato a Sara, al buio.
Letto d’un fiato. Ritmo incalzante. Con un certo disagio. Bello!
Grazie mille 🙂